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A Quiet Passion. Genio e solitudine di una poetessa triste

by Carla Lauro
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Il nuovo film di Terence Davies, nelle sale dal 14 giugno, racconta la vita di Emily Dickinson, una fra le più note poetesse americane, un’anima triste, molto complessa, dotata di una grazia particolare e di una personalità ben definita.

Nata nel 1830 a Amherst, Massachusetts, in una famiglia di tradizione puritana, Emily condusse la sua intera esistenza fra le claustrofobiche pareti della casa paterna, coltivando una platonica storia d’amore con un pastore protestante e restringendo progressivamente i propri spazi vitali sino a recludersi nella sua stanza da letto.

Da sempre isolata, a contatto solo con la propria creatività, che era per lei una difesa, iniziò a raccontare i suoi turbamenti interiori con naturalezza e spontaneità, quasi che questo rappresentasse il solo vero canale per esprimere i suoi pensieri e le sue opinioni, con uno stile unico ed innovativo.

Attraverso questo complesso personaggio femminile, il regista mette in luce, grazie alla credibile interpretazione di Cynthia Nixon, quale sia il costo, in termini di isolamento sociale e solitudine esistenziale, per riaffermare l’intransigenza della verità ed il rigore morale in nome del rispetto delle regole che sono state scelte per la propria vita.

Ancora una volta il binomio genio-solitudine compare in una digressione a carattere letterario come se il genio, per essere tale, debba necessariamente essere legato ad una sorta di misantropia.

E’ interessante come il regista, attraverso un’impostazione quasi teatrale delle scene, sia riuscito a ripercorre l’esistenza di questa donna volutamente autoreclusa, analizzando i suoi rapporti con i familiari, i suoi sogni, la scrittura, ed esaltando in particolare la sua fierezza e perfino l’umorismo di una vita diversa dalle altre, decisamente sopra le righe ed in contrasto con le convenzioni sociali.

Molte erano le cause che le stavano a cuore ma Emily non ha mai lottato per cambiare lo stato delle cose preferendo coltivare la sua indipendenza dentro i confini della casa paterna.

Tutto questo nel film viene estremamente appesantito da un manto di perenne tristezza.

Si ha più l’idea di una prigionia che di una conservazione del proprio mondo e dei propri affetti e, soprattutto, c’è un atroce senso del tempo che non si può fermare, della morte che incombe, dei punti di riferimento, sia affettivi che morali, che via via vengono a mancare.

Il film diventa sempre più claustrofobico in linea con la scelta di vita di Emily Dickinson che dall’isolamento sociale è passata anche a quello familiare, pur sempre nel rispetto di quella benefica protezione che l’ambiente della famiglia le poteva assicurare.

La sua trasgressione, compresa quella artistica che la portava, da donna, a poetare nel silenzio della notte, rende inevitabile la sua scelta di graduale clausura e, nel contempo, plausibile il progressivo scolorirsi dei toni cromatici in favore di una fioca luminosità della scena.

“Questa è la mia lettera al mondo, che mai scrisse a me…” queste le parole di una delle sue più celebri poesie, la perfetta sintesi della sua esistenza completamente ovattata in un luogo fuori dal mondo, quello stesso mondo da lei conosciuto, solo attraverso la fessura di una porta socchiusa e che, per sua volontà, non la conobbe mai davvero se non attraverso alcuni versi pubblicati in forma anonima e, poi, resi noti ed apprezzati solo dopo la sua morte.

di Carla Lauro