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Chahnourh Varinag Aznavourian

by Piera De Prosperis
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E’ morto l’ultimo chansonnier: cioè? Perché era chiamato così Aznavour? Qual era la caratteristica del celebre cantante che ci ha lasciato qualche giorno fa? L’enciclopedia Treccani recita: Chansonnier: Cantante che esegue canzoni di cui, spesso, ha composto la musica e i versi. Il termine è usato soprattutto per indicare gli artisti appartenenti a quella tradizione che, presente in  Francia fin dal Settecento, è stata ripresa nel periodo tra le due guerre mondiali da M. Chevalier, e rinnovata, nel secondo dopoguerra, da C. Trenet, G. Brassens, L. Ferré, J. Brel, G. Bécaud, E. Piaf, Y. Montand, J. Gréco ecc. A essa si sono ricollegati, a partire dagli anni 1950, i primi cantautori italiani.

Tutto torna: Aznavour era uno chansonnier, ma non solo, era anche un armeno, il suo vero nome era Chahnourh Varinag Aznavourian. Figlio di un popolo perseguitato, che ha subito il primo grande eccidio della storia, perpetrato dall’Impero Ottomano agli inizi del ‘900, ha sempre mantenuto vive le sue radici. Tempo fa i fratelli Taviani portarono sullo schermo il romanzo di Anna Aslan, La masseria delle allodole, un terribile affresco dello sterminio voluto da un gruppo di ufficiali nazionalisti turchi che spinsero i curdi al genocidio degli armeni. Secondo alcune stime i morti furono un milione e mezzo, ma è impossibile dare cifre certe.

Aznavour non ha mai dimenticato, sia perché la sua famiglia aveva vissuto la tragedia sulla propria pelle, sia perché le violenze sui popoli sono ancora oggi presenti nelle cronache. Come cantante non ho mai molto amato Aznavour: troppo lontano dalla mia generazione abituata ad altri ritmi e ad altre novità musicali. Accanto ad Aznavour, avrei messo Fred Bongusto, Bruno Martino, nomi di cui si conosceva qualche canzone ma non l’intero repertorio. Forse avrà pesato anche la parodia che Vianello e la Mondaini fecero di Ed io tra di voi in uno show di parecchi anni fa. Ogni volta che vedevo Aznavour mi ricordavo di quella esilarante scenetta.

Senza nulla togliere alla grandezza di un cantante che ha interpretato sentimenti universali. Conosco molte sue canzoni: Com’è triste Venezia, La Bohème, L’istrione per ricordarne alcune, le più famose in Italia. Giustamente la Francia gli ha reso l’omaggio dovuto con funerali solenni, tante personalità e gente comune, ma certo non con la stessa carica emozionale che ci fu al funerale di Johnny Hallyday, lui sì un vero innovatore ed un’icona per la generazione dei ribelli.

Il fascino di questo artista, secondo me, sta proprio nell’essere stato fortemente ed incondizionatamente legato alle sue radici. Ha continuato ad aiutare finanziariamente le organizzazioni umanitarie che si occupano degli armeni, mantenendo vivo quel senso di identità, per cui si possono avere due patrie e sentirsi cittadino di entrambe. Forse non è estraneo a questo suo essere dimidiato tra due popoli il senso del dolore che è così presente nella sua produzione artistica. Egli dirà: “Mi duole molto che Israele non abbia riconosciuto il genocidio degli Armeni: fu quello il modello a cui i nazisti si rifecero per la Soluzione Finale degli Ebrei”. Ecco è in questa umanità dolente e perseguitata a cui guarderà sempre con commozione e partecipazione la cifra sentimentale migliore dello chansonnier.

Ha avuto una vita lunga e costellata di successi, ma le vicende della sua famiglia e del suo popolo furono per lui quasi un’ossessione, come se, scampato al massacro, cercasse di farsi perdonare di essere sopravvissuto, una sindrome ben nota a chi come Primo Levi non riuscirà mai a liberarsi dal fatto di essere un salvato di fronte ai milioni di sommersi.

di Piera De Prosperis