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Dogman: una vittima che diventa carnefice

by Carla Lauro
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Dogman è il nuovo film di Matteo Garrone, trionfatore al Festival di Cannes, liberamente ispirato a un triste fatto di cronaca avvenuto a Roma negli anni ’80, noto come il delitto del Canaro della Magliana.

In una periferia abbandonata e fatiscente, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte, vive Marcello, padre amorevole ed amante degli animali, che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, le uscite con l’adorata figlia ed un ambiguo rapporto di sudditanza con Simone, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere. Marcello è un uomo mite e dall’animo buono, è sempre gentile e benvoluto da tutti, ma nella sua sopravvivenza quotidiana c’è qualcosa che lo turba.

Psicologicamente succube del bullo del quartiere, dal quale è vessato e sfruttato per portare a compimento piccoli crimini, Marcello subisce in silenzio prepotenze, estorsioni e minacce, covando sempre più odio e rancore nei confronti di quest’uomo al quale è legato da una strana dipendenza, un’amicizia forzata.

Garrone dissemina il racconto di note premonitrici, insabbia il malcontento che ribolle intorno alle vessazioni, riesce a rendere, grazie alla magistrale interpretazione di Marcello Fonte, il profondo senso di impotenza e di fatalistica sconfitta che fiaccano il suo animo fino all’esasperazione per cui, dopo l’ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello progetterà una vendetta dall’esito a tutti noto.

Allontanandosi dalla tragicità degli avvenimenti, il regista riesce a costruire una malinconica epopea di una vittima che si trasforma, suo malgrado, in un crudele e spietato aguzzino.

Sullo sfondo di un livido paesaggio dalle infinite tonalità di grigio, un non-luogo dal sapore postatomico tra fatiscenti sale da biliardo e locali di lap-dance, Marcello e Simone non funzionano semplicemente come due antagonisti, ma come due polarità che si attraggono reciprocamente, secondo una relazione di sottomissione e di perversa dipendenza tra vittima e carnefice, che sarà poi rovesciata.

La strada intrapresa da Garrone con Dogman è, dunque, decisamente meno banale e molto più interessante di un semplice e sterile racconto di cronaca.

Sembra quasi assurdo, ma il protagonista non si trasformerà mai in un mostro e, paradossalmente, la sensazione che si prova davanti ad ogni scena, è quella di voler restare sempre al suo fianco.

Grazie a Marcello, il personaggio del Canaro si fa perdonare tutto, anche le ombre: non puoi non volergli bene. L’idea di Garrone, come da lui stesso affermato in diverse interviste, era proprio quella di analizzare cosa fa una persona come tante, di indole pacifica, nel momento in cui si ritrova coinvolta in un meccanismo di violenza; in che modo ne esce, senza diventare un mostro. E’ questo il tema del film.

L’abilità del regista, del cast, della splendida fotografia del danese Nicolai Brüel, sta, quindi, nel realizzare una pellicola che ti inchioda alla sedia.

Sono 102 minuti di tensione, disagio epidermico, apnea emotiva. Garrone è in grado di generare nello spettatore proprio le medesime sensazioni che prova il suo Marcello: una voglia irrefrenabile di fuggire ma, nello stesso tempo, l’incapacità di farlo.

Perchè Dogman ti fa soffrire, ti angoscia ma non ti lascia andare.

di Carla Lauro