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Liceo breve, ha senso?

by Piera De Prosperis
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Scrivo dal pianeta dei pensionati della Scuola e da questa distanza siderale vorrei discutere di una questione che sembra profilare un mutamento epocale nel mondo dell’istruzione italiana: il liceo quadriennale.

E’ il cosiddetto “liceo breve”, ovvero la riduzione a quattro anni del percorso di studi della scuola secondaria di secondo grado. Sono un centinaio gli istituti che parteciperanno a questa sperimentazione, dodici dei quali in Campania (tra cui il Liceo Sannazzaro di Napoli e il Liceo Urbani di San Giorgio a Cremano). Sperimentazione giustificata dall’argomento “in Europa avviene già”: ma è proprio vero?

Dall’ultimo rapporto di Eurydice, la rete europea di informazione sull’istruzione che periodicamente pubblica un rapporto sulla struttura dei sistemi scolastici europei, emerge che in effetti la scelta di un percorso secondario di cinque anni è poco praticata in Europa. Secondo i dati pubblicati a novembre infatti solo Bulgaria e Slovenia, oltre all’Italia, la attuano. A prima vista sembrerebbe dunque confermata la tesi di partenza. Se però si va a studiare la durata complessiva del primo ciclo (scuola primaria e secondaria di primo grado) e del secondo ciclo (scuola secondaria di secondo grado) le cose appaiono diversamente. Nel nostro Paese infatti tale arco temporale ammonta a 13 anni e nell’Unione quindici Paesi su ventotto fanno altrettanto. Cosa significa ciò? Vuol dire che i Paesi europei nei quali il secondo ciclo è più breve rispetto all’Italia non eliminano tout court un anno di studi, ma lo recuperano altrove dividendo diversamente i due cicli. Solo cinque Paesi europei (Italia compresa) hanno un primo ciclo di 8 anni, mentre la scelta predominante fra i restanti è di 9 anni o addirittura di 10/11 anni: di ciò però non si parla, ed è curioso che non si invochi l’allineamento alla prassi europea anche a questo riguardo, come sarebbe logico aspettarsi. Il dibattito sull’accorciamento del secondo ciclo in Italia appare quindi viziato all’origine dalla mancanza di uno sguardo sistemico: è evidente che la sola riduzione di un anno nel secondo ciclo, qualora non fosse accompagnata da una revisione del primo ciclo che aumentasse la durata di quest’ultimo, si configurerebbe come un semplice taglio di cattedre allo scopo di ottenere un risparmio di spesa pubblica nell’istruzione (cfr. Orizzonte scuola.it).

Al di là di un mero conteggio della durata dei cicli, mi sembra che una sperimentazione di tal genere vada in una direzione completamente diversa rispetto alla riflessione che le modalità di apprendimento dei giovani d’oggi richiedono. Dovremmo insegnare ai giovani il valore della lentezza, l’importanza di un’elaborazione sistematica e continuativa di quanto la scuola propone loro. Che senso ha abbreviare i tempi della scuola quando i nostri ragazzi faticano a star dietro alle nozioni? Mi si potrebbe obiettare che la didattica non deve puntare al nozionismo ma a stimolare una metodologia di apprendimento: scusatemi, ma dal mio pianeta credo che il didattichese abbia fatto il suo tempo! Le nozioni servono e sono la trama indispensabile perché la cultura possa costituirsi. Troppa vaghezza, troppa faciloneria nello studio anno perdere di vista i paletti senza i quali diventa tutto un unico indistinto magma, in cui il ratto delle Sabine diventa il topo che spaventava le donne di nome Sabina. La Scuola richiede competenze ormai incompatibili con gli stili di apprendimento dei ragazzi, che sempre più spesso quindi si mostrano demotivati e insofferenti allo studio. Non a caso, negli ultimi tempi sono esponenzialmente aumentati gli alunni che reclamano il riconoscimento di un disturbo nell’apprendimento, i cosiddetti alunni con BES (Bisogni Educativi Speciali) che richiedono un piano didattico personalizzato. E vi assicuro, per esperienza diretta, che le loro difficoltà nel comprendere il senso di cosa stanno studiando ci sono e sono tante.

Avrebbe più senso quindi una revisione strutturale delle scuole superiori, a partire dai nodi concettuali in cui le varie discipline vadano ad intersecarsi. E’ in effetti la vecchia, buona, superata programmazione modulare che già negli anni ’90 aveva mutuato dall’informatica il concetto di programmazione come realizzazione di programmi suddivisi in moduli, ognuno dei quali svolge funzioni precise ed interconnesse. Ciò infatti consentirebbe di ridimensionare i contenuti concentrandoli su alcuni, pochi, nodi di apprendimento e permetterebbe ai ragazzi di capire che la cultura è unica, non divisa per materie. I ragazzi infatti, oggi come ieri, tendono a percepire il sapere come frammentato in settori rappresentati dalle singole discipline. Tuttavia, in questo modo i docenti delle scuole superiori sarebbero costretti a dedicare tempo alla programmazione…e quando lo si fa se la Scuola è oberata di progetti, alternanze scuola-lavoro, ecc?

Il Ministero dell’Istruzione è sempre stato in mano a persone estranee alla Scuola e non competenti, superficiali al punto da incappare spesso in errori banali e grossolani (il “più migliore” della Ministra Fedeli docet).

Una cosa, in conclusione, mi sembra sia evidente: inseguire l’Europa senza avere le idee chiare su cosa vogliamo dai nostri ragazzi, e su cosa offrire loro perché diventino veri cittadini europei, è una falsa pista, direi addirittura ridicola.

Prof.ssa Piera De Prosperis