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L’italiano della chiesa, una ricerca di Librandi

by Redazione
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È arrivato da poco in libreria, ed è stato presentato qualche giorno fa alla Ubik di via Croce a Napoli, il saggio “L’italiano della chiesa” (Carocci) di Rita Librandi. Il volume vuole offrire una sintesi il più possibile completa dei modi in cui storia della Chiesa e storia della lingua italiana si sono sovrapposte, approfondendo aspetti fin qui trascurati dal punto di vista linguistico. L’autrice insegna Linguistica italiana e Storia della lingua italiana all’Università di Napoli “L’Orientale”.

Prof.ssa Librandi, quali sono le principali tecniche di comunicazione ai fedeli?

«Difficile sintetizzare in poche parole le strategie comunicative di cui la Chiesa si è servita durante i secoli. Diciamo che l’obiettivo principale è stato sempre quello di raggiungere il più alto numero possibile di persone, superando gli ostacoli legati alla diversità di istruzione, di lingua, di cultura».

Insomma, proselitismo e trasmissione della parola di Dio?

«La predicazione e la catechesi sono stati gli strumenti principali e innumerevoli sono statigli sforzi per superare le barriere linguistiche: spesso nel corso delle missioni, sia all’estero, sia nelle campagna povere dell’Italia, si ricorreva alle immagini. È arrivata, per esempio, fino a noi la stampa di un catechismo del Cinquecento interamente composto da immagini, con poche didascalie che l’autore raccomandava di leggere agli analfabeti. L’invito a essere semplici è ininterrottamente ripetuto in tutti i manuali per i predicatori dal medioevo in poi; la semplicità tuttavia non si traduceva in sciatteria o in assenza di stile e artificio retorico».

Bisognava mantenere anche una forma?

«Piuttosto una formalità decorosa ed evitare al tempo stesso abbellimenti inutili. Insieme alla predicazione e alla catechesi non va dimenticata la letteratura devota che per secoli ha rappresentato la più numerosa produzione a stampa».

Quali le caratteristiche del linguaggio di chiesa?

«Se nel medioevo la Chiesa è stata senz’altro una delle spinte che ha portato all’affermazione del volgare per ogni forma di comunicazione scritta e orale, nell’età moderna, in una situazione come quella del nostro paese, ha rappresentato un tramite per la diffusione dell’italiano. La prima unificazione linguistica italiana, avvenuta come sappiamo ai primi del Cinquecento, non si è tradotta nell’uso effettivo della nostra lingua per ogni tipo di comunicazione. La quotidianità, in particolare, era affidata ai dialetti. L’italiano, che non era lingua sconosciuta ma era poco parlata, si sarebbe fatto strada con lentezza. In ogni modo, però, i predicatori si spostavano da un luogo all’altro e dunque sarebbe stato difficile per loro servirsi del dialetto del posto; ricorrevano invece alla lingua comune, che in questo modo raggiungeva anche coloro che non avevano modo di studiarla».

Prima del canone universale della televisione, ci fu insomma la Chiesa

«Naturalmente il fine principale della Chiesa era sempre quello di diffondere la fede, ma, in un paese che non aveva uno stato unitario in grado di provvedere ai bisogni del popolo, ciò contribuiva indirettamente a diffondere l’italiano e spesso anche a migliorare l’istruzione. Molte scuole di catechismo, infatti, associavano all’apprendimento della dottrina anche quello della lettura e della scrittura per i più poveri.

Nella sua ricerca tratta anche di alcune parole che, nate per illustrare concetti o riti ecclesiastici, poi si sono snaturate e sono entrate nell’italiano comune. Ci fa un esempio?

«Il caso più evidente è quello di lavabo. ll termine si attesta in italiano solo nell’Ottocento ma ha un’origine molto antica: deriva, infatti, dal futuro latino, lavabo, (laverò), che si legge in un verso del Salmo 26 (Lavabo inter innocentes manus meas, «Lavo nell’innocenza le mie mani» ed era recitato dal sacerdote al momento di lavarsi le mani durante la messa. Poco per volta la voce verbale cominciò a essere adoperata come sostantivo per indicare il recipiente per l’acqua che era fissato al muro nelle sacrestie dove un tempo veniva inciso il versetto del Salmo 26; ciò favorì l’interpretazione di “lavabo” come denominazione dell’oggetto su cui era scritto. Il senso di ‘lavamano, lavandino’, assegnato molto più di recente, ha fatto entrare il termine nella lingua comune facendogli perdere ogni legame con la parola originaria.