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Nel monastero di Cava de’ Tirreni col padre Abate. La diaconia dell’ascolto

by Flavio Cioffi
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Confesso la mia ignoranza. Non solo non avevo mai visitato l’abbazia benedettina di Cava de’ Tirreni, ma non ne conoscevo compiutamente nemmeno la storia e l’importanza.

La curiosità di saperne di più è nata perché un vecchio amico, già sindaco di Cava, è diventato oblato benedettino. Allora, nel tentativo di capire come fosse mai potuto succedere, gli ho chiesto di farmi da guida e di procurarmi un incontro con il padre Abate.

Non starò a descrivervi le suggestioni del monastero, un gioiello incastonato in un ambiente incantato, abitato da nove monaci di cui uno eremita, uno esorcista (!) e uno giovane postulante. Né a raccontarvi la sua storia. Anche se vi raccomando caldamente di visitarlo, non come un museo, ma lasciandovi andare al suo fascino.

Mi limiterò a raccontarvi le quattro chiacchiere che ho fatto, subito prima di Capodanno, con l’Abate. In un piccolo, prezioso studiolo, raggiunto dopo aver attraversato imponenti corridoi e sale, forte (o debole, a seconda dei punti di vista) del mio assoluto laicismo, ho cercato di cogliere il significato di una vocazione così particolare in rapporto ai tempi che viviamo.

Padre, mi racconti in un titolo la badia di Cava de’ Tirreni.

Il titolo che darei all’abbazia è: luogo di spiritualità. Innanzitutto. Invece a me pare sia vista come un museo, un grande museo da visitare. Però, tengo a precisare che questo è un monastero nel quale vive una comunità di monaci dediti alla contemplazione, alla lode di Dio, alla preghiera, alla vita comune. L’abbazia ha come compito proprio quello di essere un luogo di spiritualità., un luogo dove la gente deve venire per pregare, ma anche per essere ascoltata. Penso che sia questa la caratteristica di un cenobio benedettino: accogliere la gente che vuole essere ascoltata. Perché il problema principale della nostra società è quello del rumore, della paura del silenzio. Vedo le persone chiedere di poter avere un colloquio con i monaci, con l’abate, appunto per essere ascoltata. Questa diaconia dell’ascolto che viene esercitata da noi monaci, dediti all’ascolto di Dio e quindi degli uomini, va accentuata come servizio che i monaci devono prestare.

Aiutando le persone ad ascoltare Dio.

Certamente. Il nostro ruolo educativo è proprio questo. Ascoltare la gente perché la gente poi ascolti soprattutto la parola di Dio, Dio che parla. Negli avvenimenti e nella Sua parola. La caratteristica di un monaco benedettino è che si pone in ascolto della parola di Dio mediante la lettura della Sacra Scrittura, la lectio divina. Il monaco è abituato a questo ascolto della Parola per poter poi essere più attento e disponibile verso gli altri. La gente viene al monastero e spesso chiede proprio una parola di orientamento, una parola vera, e il monaco cerca di orientarli verso Dio.

Questo significa che esiste un disagio diffuso?

Io vedo segnali di preoccupazione. Ripeto, la gente oggigiorno è molto disorientata. Perché si è allontanata direi dalla fonte della luce, che è Dio, e l’allontanamento da Dio provoca questo andare a tentoni. Questa è la mia preoccupazione ed è quello che almeno io traggo dai colloqui che ho durante l’anno con le persone che incontro. Preoccupate, direi anche angosciate e disorientate. Noi dobbiamo realmente tornare a Betlemme per poter accogliere il dono della gioia, come i pastori sono andati a vedere nella grotta Gesù bambino e hanno ricevuto in contraccambio la gioia. Infatti, l’evangelista dice che i pastori poi tornarono felici, glorificando e lodando Dio per quello che avevano visto. Ecco, noi abbiamo bisogno proprio di questo saper carpire il dono della gioia per avere il cuore leggero.

Possiamo dire che l’angoscia è anche colpa del contesto urlato nel quale viviamo?

Oggigiorno esiste una congiura contro il silenzio. Ci sono tante parole discordanti, tanto frastuono che provoca, come dicevo, disorientamento. Si ha paura del silenzio perché il silenzio aiuta a entrare in sé stessi e l’uomo quando si confronta con sé stesso ha paura e si rifiuta.

Cosa auspica per l’anno nuovo?

Dobbiamo ritornare a Dio. Ritornare al vangelo. Ritornare ai valori evangelici e ai valori umani. Quelli della solidarietà, della fraternità, dell’amicizia, dell’onestà. Il nostro compito, di tutti, è quello di ritornare, perché ci siamo allontanati. La parola del 2019 deve essere: ritornare.

Appena uscito, ho pensato a quante volte avrei dovuto scrivere in questo articolo la parola Dio e me ne sono vergognato. Mi sono sentito inadeguato. Allora Gli ho chiesto scusa ad alta voce. “Lavora e non rompere”, mi è sembrata la risposta.