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60 anni dal disastro del Vajont, la vicenda giudiziaria

by Stefano Sorvino
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Quest’anno il sessantesimo anniversario del disastro del Vajont (9 ottobre 1963) è stato solennizzato dalla visita del Presidente della Repubblica Mattarella sui luoghi della catastrofe, al confine tra le regioni Friuli e Veneto e, in particolare, tra le province di Pordenone e Belluno.

Al di là del doveroso rituale, la tragica memoria del Vajont – pur dopo sei decenni – sprigiona ancora una sinistra potenza evocativa, non solo per le dimensioni apocalittiche dell’evento e dei suoi effetti ma anche per la sua agghiacciante e dimostrata prevedibilità, acclarata per la prima volta anche in sede giudiziaria.

La catastrofe viene ancora oggi ricordata nella vulgata come “disastro della diga” ma l’espressione è tecnicamente impropria, in quanto non veniva causata dal collasso della diga – che è rimasta intatta nella sua imponenza – ma piuttosto dal rovinamento della grande frana dal versante del monte Toc nel sottostante lago artificiale prodotto dallo sbarramento idraulico. Lo scivolamento produceva l’effetto di una immane onda di piena distruttiva, che scavalcando la stessa diga tracimava in modo disastroso sulla valle pedemontana sottostante, con un bilancio – rimasto per sempre approssimato – di oltre 2.000 morti, 20.000 senzatetto e la totale distruzione del comune di Longarone.

L’ improvvisa e violentissima esondazione, espandendosi a monte e a valle, determinava uno dei più gravi disastri idrogeologici di tutti i tempi – per numero di vittime e quantità di danni – prodotto dal concorso colposo di errori tecnici e responsabilità umane per la prevedibilità dell’evento, legalmente accertata dopo una lunga vicenda giudiziaria penale e civile (chiusa in via definitiva non molto tempo fa per i profili risarcitori).

Nel 1970 il geologo francese Marcel Roubault scrisse un libro dal titolo emblematico, “Le catastrofi naturali sono prevedibili” (Einaudi) e le sue significative conclusioni possono così sintetizzarsi: se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto. Il disastro del Vajont, su cui Roubault lavorò come consulente dell’Autorità giudiziaria, nella seconda perizia collegiale disposta dal giudice istruttore – dopo la prima consulenza ritenuta inaffidabile e parziale – rappresenta il più drammatico esempio di una calamità tragicamente prevedibile nella sua progressiva dinamica.

La ricostruzione puntuale della vicenda dimostrava che il progetto di sbarramento della diga non avrebbe mai dovuto essere realizzato in quel delicato sito, dove già risultavano inequivocabili evidenze geologiche di ripetuti ed importanti fenomeni franosi. La consulenza tecnica e l’inchiesta evidenziavano incompetenze e gravi responsabilità, sia in capo ai geologi che se ne erano occupati, sia a carico della società privata committente (SADE), e degli organi statali (servizio dighe del Ministero dei Lavori pubblici) all’epoca preposti al controllo ed alla vigilanza su questi impianti.

Inoltre, risultava circostanza gravissima che la vistosa accelerazione finale del movimento franoso del versante sinistro del monte Toc si fosse manifestata per circa un mese prima del collasso definitivo; vi sarebbe stato, cioè, tutto il tempo per adottare le misure necessarie evacuando la popolazione residente nell’area a rischio, se vi fosse stata la dovuta avvedutezza e tempestività dei soggetti competenti.

Vajont, prima che la tragedia del 1963 lo rendesse universalmente noto – come sinonimo di evento apocalittico – era il nome misconosciuto di un piccolo torrente incassato tra le sponde strapiombanti dell’omonima valle, collocata al confine tra Friuli e Veneto e, quindi, le rispettive province di Pordenone (all’epoca Udine) e Belluno. Le sue acque, che scorrono ai piedi dei comuni di Erto e Casso – estrema propaggine occidentale della regione friulana – sfociano nel Piave (lo storico fiume simbolo della Prima guerra mondiale) in territorio bellunese di fronte a Longarone.

La sera del 9 ottobre di sessant’anni fa il monte Toc precipitava nella valle, mobilitando una massa compatta di rocce per 250-260 milioni di metri cubi. L’orogenesi alpina aveva lasciato in quelle montagne i segni tormentati della sua complessa storia geologica, con incerti equilibri che non avrebbero retto la presenza invasiva di una gigantesca massa d’acqua raccolta in un invaso artificiale e trattenuta da una imponente diga – completata nel 1959 – alta ben 265 metri.

Il bacino era stato progettato per scopi di sfruttamento idroelettrico – nell’ambito del progetto “grande Vajont” – incentivato dalla legislazione e dalla politica dell’epoca sugli usi delle acque, fortemente orientata a privilegiare l’utilizzo della risorsa idrica per la produzione energetica a supporto dell’allora impetuoso processo di sviluppo industriale negli anni del boom economico. Eravamo alla vigilia del passaggio degli impianti dalle società idroelettriche private all’Enel per effetto della nazionalizzazione varata, agli inizi degli anni ‘60, dal governo di centro sinistra.

La frana che, a seguito dell’invasamento del bacino, per circa quattro anni si era mossa più o meno lentamente – manifestando una molteplicità di segnali premonitori – si staccò in quel momento con un’accelerazione progressiva (sino a raggiungere la velocità di 80-90 km all’ora), rovesciandosi sull’invaso idroelettrico e travolgendo tutta la vallata sottostante, con conseguenze disastrose. Compattezza e velocità della massa d’urto proiettarono in un colpo ben 70/80 milioni di metri cubi d’acqua con tre ondate dirette in diverse direzioni ed assolutamente rovinose.

Una frontale di circa 250 metri lambiva l’abitato di Casso, salvaguardato dalle rocce alte a strapiombo; la seconda diretta verso Erto; la terza tragicamente distruttiva – dopo essersi rialzata di un centinaio di metri al di sopra del coronamento della diga – veniva “sparata” con micidiale violenza sull’abitato di Longarone e sulla valle del Piave. Dai sismogrammi, che registrarono lo spaventoso fenomeno, potette desumersi che il tempo di caduta della frana sia stato dell’ordine di circa due minuti ed inoltre che la successiva inondazione della valle del Piave si sia propagata in sei/sette minuti, preceduta da uno spostamento d’aria di violenza inaudita.

Per avere precedenti di tali immense frane, secondo gli esperti, bisogna ritornare ad epoche post- glaciali: la frana del Vajont rimane la più grande per dimensione, di cui vi sia oggi memoria in Europa. L’energia scaturita dall’evento veniva valutata di una potenza quasi pari ad una deflagrazione atomica: dove passarono le acque non vi fu alcuno scampo per uomini e cose, tanto che pochi risultarono i feriti. Il numero dei morti ritenuto attendibile fu di circa 1.900, anche se non è mai stato chiuso un bilancio definitivo delle vittime della catastrofe per il numero rimasto indefinito dei dispersi.

Il centro del comune di Erto si salvò ma le sue frazioni pagarono il tributo di 150 morti, di cui 139 non più ritrovati, mentre nel villaggio del cantiere della diga perirono 54 persone. Era però la valle del Piave a registrare di gran lunga il maggiore numero di vittime, di cui ben 1.450 localizzate nel comune più colpito di Longarone.

Tale calamità, per le sue particolarissime circostanze, è stata considerata la più grave nella pur lunga ed articolata lista delle catastrofi nazionali – dal dopoguerra al terremoto del 1980 – da cui scaturirono inchieste e contenziosi durati molti anni in un contesto di pesantissime polemiche. Nelle polemiche sarebbe stato successivamente coinvolto anche l’on. Giovanni Leone che, da Presidente del Consiglio, intervenne sui luoghi della catastrofe – manifestando lo sgomento e la solidarietà del Governo e promettendo giustizia – ma, in epoca successiva, da valente avvocato penalista, assunse incarichi di difesa e consulenza nei relativi procedimenti.

Varie commissioni amministrative e giudiziarie, a seguito di studi all’apparenza molto documentati, concludevano in prima battuta per la fatalità ed imprevedibilità dell’evento, sostenendo come una frana di tale mole fosse praticamente sconosciuta nella storia. Eppure vari indizi e segnali premonitori avevano prefigurato la reale portata del rischio ed alcuni consulenti – purtroppo rimasti inascoltati – avevano manifestato per tempo le proprie preoccupazioni e riserve sui calcoli e sulle valutazioni ufficiali anteriori all’evento.

Nel luglio 1965 la Commissione parlamentare d’inchiesta concluse, secondo la relazione di maggioranza, che le cause della catastrofe apparivano oscure, affermando che non erano rinvenibili responsabilità nell’operato degli enti concessionari e nemmeno dei competenti organi di controllo della pubblica amministrazione.

Nel frattempo, si sviluppava il ponderoso procedimento penale presso il piccolo tribunale di Belluno ed il giudice istruttore Fabbri – convinto della parzialità ed incompletezza delle prime consulenze tecniche- chiedeva ed otteneva dal Ministero della Giustizia in via eccezionale l’autorizzazione a far riesaminare la delicatissima questione da un team di consulenti stranieri, che offrissero maggiori garanzie di imparzialità ed obiettività. Un’operazione di questo genere risultava straordinaria ma, attesa la rilevanza e complessità del caso, il Ministero autorizzava senza difficoltà la ben motivata richiesta del giudice bellunese di avvalersi di periti stranieri per il riesame tecnico della particolarissima fattispecie.

Il giudice istruttore, ottenuto il via libera, poteva così individuare un pool di esperti stranieri di altissimo livello in grado di accettare un così delicato mandato, perché liberi da ogni condizionamento. Furono nominati il geologo francese Roubault, il progettista di fama mondiale Stucky, l’idraulico Gridel ed un solo studioso italiano, il prof. Floriano Calvino dell’Università di Padova (fratello del noto scrittore Italo). Le risultanze della loro perizia furono molto severe e rigorose, ben più di quanto si potesse ipotizzare all’inizio dell’indagine e diversamente dalla prima consulenza.

Il progettista Stucky concludeva che non si sarebbe mai dovuto consentire che il livello dell’acqua nell’invaso salisse in misura così sconsiderata, come pure aveva fatto la società concessionaria allo scopo di non far diminuire il valore economico dell’impianto idroelettrico. L’ idraulico Gridel esaminò criticamente la validità dei risultati apparentemente rassicuranti, ottenuti attraverso il modello idraulico fatto costruire in laboratorio dalla società concessionaria SADE, affinché simulasse diverse ipotesi e modalità di eventuale caduta della frana, che erano stati interpretati in modo erroneo prima dell’evento.

Il geologo francese documentò invece che la frana del Vajont era effettivamente una delle più grandi mai conosciute al mondo, ma non era purtuttavia priva di precedenti analoghi. Infatti studi anteriori, realizzati in Norvegia e negli Stati Uniti sulle frane entro i fiordi, facevano rientrare l’onda di 200 metri in quella che si può ritenere la norma in eventi del genere.

I consulenti della magistratura raggiunsero così una conclusione unanime nell’accertare che la catastrofe fosse pienamente prevedibile. La perizia tecnica collegiale orientò il procedimento penale, fino allo storico processo consumato all’Aquila in primo grado e in appello (1969-71), concluso con due sole condannate definitive irrogate ai soggetti responsabili – rispetto agli undici imputati della fase iniziale (di cui uno suicidatosi) – e confermate dalla Corte di Cassazione.

Temendosi a Belluno disordini e pressioni, per la comprensibile emotività dell’ambiente locale, il processo penale venne sottratto al giudice naturale bellunese e trasferito – per legittima suspicione- nella tranquilla città dell’Aquila, per garantire che il dibattimento si svolgesse nella calma di un foro sereno perché lontano dai luoghi del tragico evento. Il maxiprocesso iniziava nell’ ottobre 1968 e si concludeva nel 1971 – al terzo grado di giudizio – con sentenza di condanna definitiva della Cassazione comminata agli imputati Biadene e Sensidoni, confermativa di quelle di appello, appena quindici giorni prima che maturasse il termine di prescrizione dei reati ascritti.

La sentenza risultava storica perché prima nel suo genere, con una pronuncia di accertamento e condanna per responsabilità colposa nella concausazione di un evento calamitoso, ed avrebbe aperto – anni dopo – un articolato e significativo filone di giurisprudenza penale (vedi Sarno, Soverato, ecc.). Ma la conclusione giudiziaria risultava poco più che simbolica, sia per il numero di soggetti giudicati responsabili che per l’esiguità delle pene ad essi irrogate.

Infatti già la sentenza di primo grado del Tribunale dell’Aquila del dicembre 1969 aveva irrogato dodici anni di reclusione a tre soli imputati rispetto ai 158 complessivi richiesti dalla pubblica accusa a carico di ben undici imputati. Nell’ ottobre 1970 la Corte di Appello del capoluogo abruzzese pronunciava la sentenza di secondo grado e – pur riducendo ulteriormente la misura delle pene ed il numero dei condannati (da tre a due) – confermava la natura dei reati, e cioè omicidio colposo plurimo, frana ed inondazione, riconoscendo in particolare la prevedibilità dell’evento a base della responsabilità.

Pur nella sostanziale esiguità delle pene irrogate a tecnici e funzionari dello Stato, l’elemento essenziale – sotto il profilo giuridico – era l’accertamento in sede processuale della sostanziale prevedibilità dell’evento e quindi della colposità del disastro di frana ed inondazione. In particolare, emergevano, nella ricostruzione della colpevole gestione dell’evento, tre fondamentali errori umani.

Innanzitutto, la costruzione della diga in una valle inidonea sotto il profilo geologico per la presenza di una frana, di cui erano stati dolosamente occultati e minimizzati gli inequivocabili segnali premonitori. In secondo luogo, l’errore di aver innalzato la quota del lago artificiale oltre i margini di sicurezza, in presenza di un pericolo incombente. Infine, ultimo gravissimo ed imperdonabile errore, il non aver segnalato l’allarme nella drammatica giornata del 9 ottobre ’63, quando tutti gli indicatori davano ormai per certa l’imminente caduta della rovinosa frana ostinandosi a disconoscere sino all’ultimo la gravità e concretezza del rischio. Ciò non avrebbe potuto impedire l’apocalittico evento ma avrebbe permesso probabilmente di salvare le duemila vite umane attraverso una adeguata opera di evacuazione e messa in sicurezza.

Nella sentenza passata in giudicato la Suprema Corte così pronunciava in punto di diritto: “l’ esercizio lecito di attività pericolosa è da ritenersi consentito, da un lato nella misura in cui risponde ad obiettive esigenze di interesse collettivo…; dall’altro, nei limiti in cui sia possibile predisporre le misure necessarie affinché tale attività non finisca col risolversi in danno… Nel caso in esame i giudici di merito non hanno fatto altro che applicare gli anzidetti principi allorché… hanno concluso per la prevedibilità del precipitare del versante settentrionale del Monte Toce della sua estrema velocità di caduta e, quindi, per colpa degli imputati”.

Alla articolata e complessa vicenda penale, faceva seguito un lunghissimo contenzioso civilistico di carattere risarcitorio, promosso dai familiari delle vittime, concluso in via transattiva, non molti anni fa, dall’ ENEL subentrato – per effetto della nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1962- alla concessionaria private SADE, che aveva realizzato e gestito l’impianto.

Risultano suggestive e più che mai attuali e pregnanti le riflessioni di Roubault: “…ho sentito il peso terribile dell’espressione ‘era imprevedibile’, impiegata con troppa facilità da uomini la cui ignoranza è imperdonabile, che cercano solo di coprire miseramente le proprie responsabilità, aiutati in ciò da disposizioni giuridiche o amministrative troppo spesso inadeguate…”

Perché io affermo – concludeva il geologo – che, se l’uomo non può impedire tutto, può prevedere molto. Ed affermo anche che pochi sono i grandi sinistri naturali di fronte ai quali non resti veramente che chinarsi a piangere i morti”. Probabilmente, dopo sessant’anni, il monito scaturente da quella immane tragedia resta ancora valido ed attuale.