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LE CITAZIONI: Pedriali Errani. Alla cenere

Morena Pedriali Errani

by Ernesto Scelza
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Alla cenere” è uno dei primi racconti di Morena Pedriali Errani. Un testo breve in cui sono presenti i temi “legati alla leggenda, la memoria, il tempo, il rapporto con la famiglia”: i temi dell’universo della giovane scrittrice nata e cresciuta a Ferrara da una famiglia sinta e circense. A sua volta artista circense, attivista per le minoranze romanì e parte del team Comunicazione di Movimento Kethane. Dei suoi scritti ci dice che Non è soltanto un canto d’amore per il mio popolo (sentimento certamente presente in ogni riga che scrivo), è un canto di rabbia e dolore collettivo a cui cerco di dare voce.

 

«Non c’era più scampo, aveva detto il dottore, guardando un punto oltre la sua schiena, come se lui non fosse già più lì. Non c’era cura per quel grumo di cellule che gli premeva nel fondo dei polmoni, impedendogli di respirare. Che piano piano si mangiava una lancetta dell’orologio, ogni giorno un nuovo minuto, una nuova ora, ridendo in faccia ad ogni cura.

“Quanto?” aveva chiesto lei. Quanto e aveva posato una mano sulla spalla di suo padre, le ossa che avrebbero voluto fondersi con le sue, tenerlo lì, in quella stanza. Quanto e suo padre era un lamento di ricordi tutti stretti intorno al petto, un gomitolo di vita.

Il dottore non aveva risposto (…).

Quando fu sola sprofondò sulla sedia e si coprì gli occhi con le mani. Avrebbe voluto piangere, gridare, ma restò ferma. Papà, ripeteva sottovoce. Papà.
“Portami a casa”, le aveva detto.
La città si era accartocciata su sé stessa, le luci al neon che ricalcavano ora i bordi di un vuoto, di una terra straniera. “Portami a casa, bambina.”
Lui in città ci era arrivato a vent’anni, con le scarpe rotte e il petto leggero, il vestito della domenica piegato con cura nella piccola valigia, qualche lira sparpagliata nella tasca. La fame era stata la sua compagna di giochi, gli aveva livellato lo stomaco, aveva messo la fretta infuriata degli ultimi nelle sue scarpe, l’aveva costretto a partire. Ora gli voltava le spalle, lasciando in lui un vuoto, perché seppur l’aveva odiata, gli era stata familiare. Ora non aveva altro (…).

Girò lo zucchero sciolto nella tazzina, lo guardò scivolare sulla ceramica.

Sarebbero partiti l’indomani. Gli avrebbe sistemato un cuscino sul sedile, una coperta sulle gambe, gli avrebbe chiesto spesso come si sentiva e lui, con le ultime forze, avrebbe alzato il volume della radio su quell’unica cassetta di Gaetano che amava così tanto. Avrebbero cantato piano, tenendo il tempo per gola, sputandogli in faccia. Non scorrere, non andare via, bastardo. Sarebbero arrivati alla campagna, al paese di suo padre. Sarebbe tornato a quella madre col seno di grano, con gli occhi rossi della sera (…).

Arrivarono al tramonto. Lui chiuse gli occhi, respirò le spighe, i filari di mele rosse, gli ulivi. Si fece accompagnare alla strada dei campi, cercò con gli occhi il fosso dei mughetti. Non lo trovò più e i suoi occhi ballarono un poco, prima di cadere. Non era rimasto più niente delle corse al fiume, delle ginocchia nude, dei gatti addormentati sui muretti. È giusto, pensò lui. È giusto, ti ho tradita.
Si sedettero sul ponticello che una volta passava sul canale, ora coperto di terra, e guardarono il tramonto. Il tempo lì era fermo, fermo ad aspettare il ritorno di tutti i suoi figli. Lì era nato, lì era tornato per morire. Perché nasciamo dalla cenere, pensò.

Alla cenere torniamo.»

Morena Pedriali Errani, Alla cenere.

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