“Perché qualcuno, si chiede Shakespeare, dovrebbe appoggiare un leader palesemente inadatto a governare, una persona pericolosa e impulsiva, malvagia e subdola, o indifferente alla verità? Perché, in alcuni casi, le prove di crudeltà non sono un deterrente, bensì un’attrattiva capace di trascinare seguaci soddisfatti?”: è l’interrogativo che orienta la ricerca dell’anglista di Harvard Stephen J. Greenblatt. E avanza una preoccupata considerazione: “Nonostante siano passati secoli, i re e i contadini di Shakespeare gettano luce ancora oggi sul carattere delle masse e dei loro agitatori… La fragilità improvvisa delle istituzioni, il disordine delle classi dirigenti e la rabbia populista… sono tutti elementi per comprendere la politica moderna, ma anche quello spirito popolare di umanità che per Shakespeare rimase per sempre l’unica vera speranza… che si può soffocare, ma mai spegnere del tutto”.
«Dagli esordi della sua carriera, all’inizio degli anni Novanta del Cinquecento, fino alla fine, Shakespeare si ritrovò più volte alle prese con un quesito profondamente inquietante: com’è possibile che un intero Paese cada nelle mani di un tiranno?
(…) Una simile catastrofe, suggerisce il drammaturgo, non può accadere senza un’estesa complicità. I suoi drammi sondano i meccanismi psicologici che conducono una nazione a dimenticare i propri ideali e persino il proprio interesse personale… Perché individui solitamente pieni di orgoglio e di amor proprio si sottomettono alla sfrontatezza bell’e buona del tiranno, alla sua convinzione di farla franca qualunque cosa dica e faccia, alla sua eclatante disonestà?
Shakespeare descrive ripetutamente il tragico prezzo di questa sottomissione – la corruzione morale, l’enorme spreco di denaro, la perdita di vite umane – e le misure disperate, dolorose ed eroiche che sono necessarie per restituire un briciolo di salute a una nazione danneggiata. Esiste, chiedono i drammi, un modo per fermare lo slittamento verso un governo illegale e arbitrario prima che sia troppo tardi, un mezzo efficace per impedire la catastrofe civile che la tirannia inevitabilmente provoca?
Il drammaturgo non intendeva accusare di tirannia l’allora sovrana d’Inghilterra, Elisabetta I. A prescindere dalla sua opinione personale, sarebbe stato rovinoso suggerire una simile idea sul palcoscenico. Gli statuti giuridici, risalenti al 1534 – durante il regno di Enrico VIII, il padre della regina – stabilivano che definire il sovrano un tiranno era tradimento un reato punito con la morte.
Nell’Inghilterra di Shakespeare non esisteva alcuna libertà d’espressione, né sul palco né altrove.
Come nei regimi totalitari moderni, le persone idearono tecniche per parlare in codice, riferendosi in modo più o meno diretto a ciò che stava loro a cuore. Non fu soltanto la cautela a motivare la propensione di Shakespeare per la dislocazione. Il drammaturgo sembra aver intuito di poter fare un’analisi più lucida delle questioni che impensierivano il suo mondo quando non le affrontava direttamente, ma da un angolo obliquo. I drammi indicano che era in grado di riconoscere la verità – di possederla appieno senza rimanerne vittima – attraverso l’artificio della fantasia o la distanza temporale. Da qui l’interesse che provava per il leggendario generale romano Caio Marzio Coriolano o per il Giulio Cesare storico; da qui il richiamo a figure delle cronache inglesi e scozzesi come York, Jack Cade, Lear e soprattutto Riccardo III e Macbeth, i tiranni per antonomasia. Da qui anche l’attrattiva di figure totalmente immaginarie: il sadico imperatore Saturnino nel Tito Andronico, il vicario corrotto Angelo in Misura per misura, il paranoico re Leonte nel Racconto d’inverno.
Il successo popolare di Shakespeare indica che molti contemporanei la pensavano allo stesso modo.»
Stephen J. Greenblatt, Il tiranno. Shakespeare e l’arte di rovesciare i dittatori.