Gli ultimi sondaggi in Veneto davano un testa a testa. Tra Lega e Fratelli d’Italia, entrambi tra il 27 e il 28%. Il che, anche se la matematica non era il mio forte alle superiori, porta il centrodestra minimo al 55%. aggiungeteci un 6% di FI e un 2% delle altre liste della coalizione, e arriviamo al 63%. La tipica situazione in cui se candidi un comodino rococò vinci lo stesso a tavolino. La Lega, intrigata da questa prospettiva… no, dai, evitiamoci le querele. Diciamo solo che il candidato scelto, Stefani, non è esattamente il più brillante prodotto di quasi cinquant’anni di storia politica della Liga Veneta. D’altronde la scelta non riguardava le capacità elettorali del candidato. Era, piuttosto, un complesso test di lealtà.
Stefani è riuscito nella non facile impresa di essere fedele a Salvini, pur piacendo a Zaia. È riuscito a passare avanti così a Conte, Sindaco di Treviso. Non piccola impresa, Treviso è uno dei gioielli della Corona Leghista. Ha unito il partito ed è stato, correttamente, premiato. Dalla sua ha l’esperienza di Sindaco di Borgoricco, un piccolo comune in provincia di Padova, e la carica di Deputato. Ma perché un leghista, in una regione in cui FdI alle Europee ha sbancato? Perché FdI aveva troppe figure di troppo peso e nessuno che le unisse. De Carlo, senatore, coordinatore regionale. Elena Donazzan, popolarissima Assessore e ora Eurodeputata. Tutta gente agguerrita e preparata. Ma purtroppo bloccata in un ciclo di eterne ripicche personali.
Il risultato è stato che un 32enne ha fatto marameo a tutti e alla fine FdI ha mollato il colpo. Prenotando la Lombardia per quando sarà. Sempre che nel 2028 i rapporti di forza siano identici agli attuali, sennò la Lega non gli lascerà manco quella. Facendo rivivere in via della Scrofa le stesse sensazioni che provava Berlusconi a ogni trattativa: farsi concavo e convesso con alleati del tutto immuni a qualsiasi considerazione numerica.
In tutto questo, mi domanderete, dov’è il centrosinistra? A combattere la buona battaglia tra la gente. Gente che, per la maggior parte, li sceglie come sindaci, ma si rifiuta stoicamente di fargli amministrare qualsiasi cosa di più grande. La dinamica è affascinante: il Sindaco viene scelto per competenza, il Governatore per ideologia. Il Veneto deve restare a destra, ma le città possono diventare anche rosse. È così da sempre. Se prendiamo Padova come esempio, dal 2001 a oggi c’è stata una consiliatura e mezzo di centrodestra. La prima senza nemmeno la Lega. Il resto è un vasto mare rosso. O quanto meno rosé. Negli stessi 24 anni il Veneto non è mai andato più a sinistra di Forza Italia.
Così il povero Manildo, candidato del PD e del Campo Largo, gira di piazza in piazza promettendo di sistemare tutti i problemi che l’opposizione vede, ma il cittadino sente poco e che scaldano ancora meno i cuori. Qui il problema è l’autonomia, che non ci sarà mai, naturalmente. Ma come può essere un tema cavalcato dal PD di Elly Schlein? Un monolite rosso basato su solidarismo e globalismo? È impossibile. Così, al massimo, si può (a ragion veduta) dileggiare l’avversario. Oltre è impossibile andare. In ogni caso, è pura teoria, al momento le possibilità di vittoria sono davvero limitate. E non necessariamente per colpe del candidato, del partito o della coalizione.
In generale, a vincere sarà probabilmente l’astensione, secondo arriverà comodamente un centrodestra che non emoziona, ma rassicura, terzo un centrosinistra che con l’anima profonda del Veneto non è mai, neppure una volta, entrato in sintonia. Naturalmente articoli come questo si prestano a sfottò imperituri in caso di risultati clamorosi. Fa parte dei rischi del mestiere. Non farei, ritengo, un buon lavoro a mantenermi, però, agnostico su un risultato che tutto, dalla storia alla geografia politica, indica come privo di suspence.
