Al Théâtre des Muses, quel piccolo gioiello incastonato tra le vie quiete di Montecarlo, l’aria sembrava vibrare ancor prima che il concerto iniziasse. È un luogo che non impone il silenzio: lo suggerisce con naturalezza. Un teatro intimo, raccolto, dove il sipario non separa ma avvicina, e dove la musica non rimbomba: sussurra, confida, si concede.
In questa atmosfera sospesa, dove il pubblico può quasi percepire il respiro dell’artista, si è esibito il giovane pianista romano Alfredo Conte. Una scelta tutt’altro che casuale: il Théâtre des Muses ama gli interpreti in crescita, quelli che hanno una voce propria e un’urgenza espressiva che va oltre la perfezione tecnica. E predilige programmi che chiedono immersione e ascolto consapevole, più che semplice intrattenimento.
Quella sera, però, c’era un ingrediente in più: un pubblico affezionato, fatto di volti amici. Persone che conoscono Alfredo, che lo seguono, che hanno visto evolvere il suo talento e che lo ascoltano con un’attenzione quasi familiare. Non erano spettatori qualunque, ma una piccola comunità riunita intorno a un pianista che sentono, in un certo senso, “di casa”.
Il clima mite di Montecarlo sembrava avvolgere tutto: l’aria leggera, la sera che scendeva lenta sui palazzi, sugli yacht ormeggiati, sulle vetrine illuminate. In quelle giornate di fine novembre in cui il tempo smette di correre, anche il Théâtre des Muses respirava una calma preziosa, trasformata in un’attesa morbida e luminosa.
Quando Alfredo Conte è entrato in scena, non ha portato solo la musica. Ha portato parole. Come fa sempre chi vive il pianoforte come un ponte, non come un piedistallo, ha introdotto ogni brano con semplicità e precisione. Non spiegazioni tecniche, ma piccole chiavi d’accesso: immagini, emozioni, suggerimenti che aprivano al pubblico una porta verso Schumann, Liszt, Chopin. Inviti gentili, non lezioni.
Il programma era ambizioso e coerente: i Davidsbündlertänze op. 6 di Robert Schumann, la Ballata n. 2 di Franz Liszt, il Petrarch Sonnet 104 dalle Années de pèlerinage e, come finale, la Polonaise op. 53 di Fryderyk Chopin.
Già nei Davidsbündlertänze, Conte ha mostrato una rara sensibilità schumanniana. La dialettica tra Florestano ed Eusebio — le due anime del compositore — è emersa con naturalezza, senza mai diventare caricatura: un fraseggio narrativo, capace di cercare il cuore fragile e nobile che pulsa dietro ogni pagina di Schumann.
Con la Ballata n. 2 di Liszt, la tensione si è fatta più densa. Colpisce il modo in cui Alfredo affronta Liszt: unisce brillantezza e audacia senza perdere profondità, come se avvertisse che la grandezza lisztiana non risiede solo nello spettacolo, ma nel suo respiro ampio, poetico.
Il Sonetto 104 del Petrarca ha rivelato il suo lato più lirico. Un suono rotondo, morbido, quasi vocale. Qui Conte ha saputo rallentare, meditare, lasciare che il pianoforte cantasse senza eccessi. Un Liszt intimo, vulnerabile, innamorato.
E poi, come un colpo di teatro naturale e atteso, la Polonaise op. 53 di Chopin. Brano rischioso, spesso travolto da letture muscolari. Conte invece lo ha restituito con fierezza controllata, con un eroismo che nasce più dall’interno che dalla forza del gesto. Una Polonaise potente, sì, ma mai gridata.
Il pubblico ha risposto con entusiasmo sincero, riconoscendo, tra le note, il percorso di un giovane pianista che sta imparando a dialogare con i giganti del repertorio con coraggio e umiltà, con quella combinazione di disciplina ed emotività che distingue gli interpreti veri.
E quando l’ultimo accordo si è dissolto, la serata non è finita. Davanti al teatro, nel tepore della sera monegasca, un piccolo rinfresco ha riunito tutti: bicchieri alzati, parole scambiate, risate, ricordi. Alfredo, circondato da chi lo accompagna da anni, appariva sereno e luminoso, come chi ha condiviso qualcosa di autentico.
È stata una di quelle notti in cui la musica non si limita a essere ascoltata: resta, si deposita, continua a vibrare nei dialoghi e negli sguardi. Una notte che non appartiene al calendario, ma alla memoria.
