Ci sono attori che diventano volti del cinema, e altri che diventano simboli di un’epoca. Robert Redford è stato entrambe le cose: il ragazzo dal sorriso abbagliante che ha conquistato Hollywood e il narratore silenzioso che, film dopo film, ha incarnato la malinconia e la bellezza del sogno americano. In lui convivono due anime: l’icona glamour degli anni Settanta, partner perfetto di Paul Newman in Butch Cassidy and the Sundance Kid e La stangata, e il regista appassionato che con Gente comune ha raccontato il dolore dietro le apparenze, conquistando un Oscar.
Oggi che è scomparso a 89 anni si chiude un’epoca. L’America del grande cinema perde uno dei suoi ultimi eroi romantici, e il pubblico di tutto il mondo un compagno di emozioni che ha attraversato generazioni. Ma Redford non è mai stato soltanto un attore. È stato anche attivista, ambientalista, fondatore del Sundance, un uomo che ha sempre guardato oltre lo schermo, convinto che il cinema dovesse essere luogo di storie autentiche capaci di cambiare le persone e il mondo, lontane dai riflettori troppo accecanti di Hollywood.
I suoi successi sono tanti, in più di 60 titoli, spesso storici, utili alla causa, solo occasionalmente finti e accattivanti come «Proposta indecente», ma più spesso hanno aiutato l’America a comprendere sé stessa. Era amato da tutti: dagli ecologisti per l’attenzione alla natura «Corvo rosso non avrai il mio scalpo», dai liberali per «Tutti gli uomini del Presidente», sullo scandalo Warergate, dagli attivisti per «Come eravamo», tenero amarcord diviso con la Streisand sulla gioventù degli ideali roosveltiani.
Redford è stato un attore ideale nelle coppie, sia maschili che femminili, indimenticabile quella con Meryl Streep in La mia Africa, mai virtuosistico o egocentrico, lontano dalla recitazione ‘psycho’ di un Jack Nicholson, preferendo piuttosto la via dell’impegno sociale o, in alternativa, quella sottile della malinconia. Un altro successo fu «L’uomo che sussurrava ai cavalli» e fece rumore il western pro-indiani «Ucciderò Willie Kid» di Polansky. Riuscì a non farsi fagocitare della macchina di Hollywood, pretendeva che i suoi film avessero sempre un peso culturale, affrontando in molti casi temi complessi come il lutto o la corruzione in politica, resi accessibili e intensi per il pubblico. Amava scegliere i registi senza considerare il successo commerciale, che poi arrivava comunque proprio grazie al suo fascinoso carisma.
Il suo volto, scolpito dal tempo, i capelli rossi irlandesi, aveva la nobiltà di chi ha vissuto intensamente: gli occhi azzurri non hanno mai perso quella luce che mescolava ironia e inquietudine. Guardarlo significava ritrovare un pezzo di immaginario collettivo, un cinema fatto di avventura e intimità, di eroi fragili e uomini veri.
Robert Redford è stato l’America che sogna e che riflette, che corre a cavallo nei canyon e si ferma a osservare il silenzio di una foresta. Un attore che ha saputo farsi leggenda senza smettere di essere uomo, con discrezione, con grazia.
Non tutti i divi diventano classici. Lui sì.