Siamo alla lettera D e in questi giorni trafelati e ansiosi in cui niente sembra definitivo anche se qualche spicchio di sole sembra spuntare all’orizzonte, la parola che mi sembra più appropriata da scegliere è domani. C’è ancora domani? Nel film della Cortellesi non c’era bisogno del punto interrogativo, la frase è un’affermazione diretta, dichiara una condizione. Ma siamo nell’Italia che emerge dal fascismo che lotta contro tutte le dittature politiche e familiari. Oggi il punto interrogativo è d’obbligo. C’è ancora domani?
Leggiamo come legge il nostro domani Alessandro Baricco.
Adesso è difficile individuarlo, ma c’è stato un giorno, recente, in cui Gaza ha smesso di essere il nome di una terra per diventare la definizione di un limite: la linea rossa che molti di noi hanno scelto come confine invalicabile. Da quel giorno, lottare al fianco di Gaza non è più stata una scelta politica, da legittimare o da porre in discussione.
È diventata una mossa mentale in cui una certa umanità ha preso distanza da un’altra, rivendicando una propria idea della Storia e richiedendo indietro il mondo a chi glielo stava scippando.
Non è contato più niente quel che eventualmente si pensava del conflitto tra Hamas e Israele, e neppure i pregiudizi che si potevano avere sugli ebrei o sul terrorismo: si è tutto spento come una candela in una casa che brucia, da quando Gaza è divenuta molto di più che una situazione geopolitica su cui prendere posizione: oggi è il nome di un certo modo di stare al mondo.
C’è una falda, e noi ci abitiamo giusto sopra. Da una parte la terra emersa del Novecento, con i suoi valori, i suoi principi e la sua storia tragica. E dall’altra un continente, ancora spesso sommerso, che sta staccandosi dal Novecento, spinto della rivoluzione digitale, motivato dal disprezzo per gli orrori passati e diretto da un’intelligenza di tipo nuovo. Dove si consuma la frattura, la terra trema. Il Novecento non cede, e il nuovo continente continua a strappare. Non nutrirei grandi dubbi su come andrà a finire: il Novecento andrà alla deriva, continente quasi inabitato, destinato ad essere studiato nei libri e nei musei.
Ma in questi ultimi mesi siamo stati costretti a ricordare una verità scomoda, che forse avevamo rimosso: non c’è niente di più pericoloso di un animale morente. Entrato in agonia, il Novecento ha iniziato ad abbandonare la composta resistenza che aveva declinato con fermezza e, fiutata la fine, ha iniziato a menare colpi violenti, diventando estremamente aggressivo. Lo ha fatto resuscitando uno dei suoi tratti identitari più forti: credere che la guerra sia una soluzione, e la sofferenza dei civili un prezzo accettabile con cui finanziare lo scontro tra le élites. Sia l’aggressione russa all’Ucraina sia la guerra tra Hamas e Israele affondano le loro origini in pieno Novecento. Ancora vi si percepisce l’onda d’urto di fenomeni come l’Imperialismo e il Colonialismo che sono stati marchi di fabbrica del pensare Otto-Novecentesco. Vi si riconoscono facilmente conti rimasti aperti dalla Seconda Guerra Mondiale o dalla Guerra Fredda. E vi risulta spalancato il catalogo di prodotti con cui il Novecento ha venduto se stesso per lungo tempo: il culto dei confini, la centralità delle armi e degli eserciti, la religione del nazionalismo. È tutto un unico pacchetto: è il colpo di coda dell’animale morente. L’onda lunga di un disastro.
Di fronte a tutto ciò, all’inizio è stato difficile capire. Sembravano scosse sismiche, assestamenti del terreno. È stato il momento in cui aveva senso schierarsi, o tirare linee tra buoni e cattivi. Lo abbiamo fatto, ognuno secondo le proprie convinzioni. Poi è arrivata Gaza. Allora, d’istinto, si è sentito che c’era una sola linea, in realtà, ed era quella tracciata dalla falda su cui stiamo in bilico. Un mondo morente, da una parte, un nuovo continente, dall’altra. È sembrato urgente dire da che parte stavamo. E Gaza ci ha aiutato a farlo, perché è una sintesi rovente, chiarissima, di una spaccatura enorme – è dove un intero terremoto trema una volta sola, in un solo posto, in un solo momento.
Ci sarebbe anche Trump, osserva qualcuno. E soprattutto l’America trumpiana. Giusto. Ma lì, sono sincero, non riesco a capire molto, mi mancano gli elementi. Credo che si dovrebbe vivere a lungo negli Stati Uniti, in questi anni, per capire. Da lontano colgo giusto l’urgenza di non scambiare il trumpismo – così come certi populismi europei – come l’ennesima zampata dell’animale morente. Non è così semplice. Lì dentro c’è un incrocio di correnti che è difficile da analizzare. Sicuramente c’è un’istintiva regressione a schemi di pensiero novecenteschi, tanto rudimentali quanto utili nei momenti di confusione. Il ritorno al culto dei muri e dei confini ne è un chiaro esempio. Ma questa regressione non si dà in purezza, come avrebbe fatto nel Novecento, e piuttosto viaggia costantemente diluita in sostanze che sembrano piuttosto arrivare da certa chimica tipica della nuova civiltà: il sospetto per le élites, l’individualismo di massa, perfino una certa inclinazione a interpretare la realtà con gli schemi formali del gioco, spostando su una superficie vagamente ludica il baricentro delle cose e diffidando della profondità come codice di lettura del reale. Certo, l’assemblaggio è duro da digerire per la sua tendenza a virare sul volgare, il protervo, l’adolescenziale e il semplicemente imbecille. Ma le rivoluzioni, è inevitabile, producono spettacolari contromovimenti di cui non sempre si può controllare il design. Quella francese del 1789, per dire – una rivoluzione che ha cambiato mezzo mondo – rimbalzò in una turgida acrobazia il cui kitsch è splendidamente riassunto nel quadro di Ingres dedicato a Napoleone imperatore. Vale la pena dargli un’occhiata.
Tra la presa della Bastiglia e quel quadro passarono 17 anni. Gli stessi che sono passati dalla presentazione del primo iPhone alla vittoria di Trump alle presidenziali del 2024. (Sì, mi rendo conto che il paragone delizierebbe il vecchio Donald. Mi scuso. Ma rendeva l’idea).
Sono stralci dell’intervento di Baricco, L’addio al Novecento dei ragazzi nelle piazze, pubblicato dall’autore su Substack, di libera circolazione e che l’autore conclude con questo invito: Se questo testo vi piace, diffondetelo. Se vi piace molto, traducetelo, prima che lo faccia l’IA, e fatelo girare. Grazie.
Allora c’è ancora domani purché le categorie cambino, purché si affronti con lucidità e consapevolezza il mondo nuovo nato oltre la linea segnata dalla tragedia di Gaza ed in cui ancora una volta sono stati e saranno i giovani i veri protagonisti.