Parla della famiglia e della vita povera dei contadini normanni il libro che la scrittrice francese e premio Nobel del 2022 dedica alla memoria del padre. “Il posto” ha un esergo che illumina il carattere e il senso della sua scrittura. È una frase di Jean Genet: “Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito”. E il ‘tradire’ cui si riferisce “rimanda al ‘tradĕre’ latino, al ‘consegnare’ alla memoria delle pagine tasselli di un percorso esistenziale complesso e doloroso”. Ernaux scrive nella ‘lingua dei dominati’, quella della sua classe sociale d’origine, quella dei nonni e dei genitori, quella degli abitanti di Yvetot, piccolo paese di Normandia.
«Abitavano in una casa bassa, dal tetto di paglia, con il pavimento in terra battuta. Bastava bagnare il suolo prima di spazzare. Vivevano dei prodotti dell’orto e del pollaio, del burro e della crema che il coltivatore concedeva a mio nonno. Cominciavano a pensare a nozze e comunioni con mesi di anticipo, poi arrivavano all’appuntamento a stomaco vuoto per approfittarne meglio. Un bimbo del villaggio, convalescente dopo la scarlattina, è morto soffocato dal vomito dopo che l’avevano fatto ingozzare di pollo. Le domeniche d’estate andavano alle ‘assemblee’, dove si giocava e si ballava. Un giorno mio padre è scivolato dalla cima dell’albero della cuccagna senza avere afferrato il cesto delle vettovaglie. La rabbia di mio nonno durò delle ore…
Il segno della croce sul pane, la messa, la pasqua. Come la pulizia, anche la religione conferiva loro la dignità. Indossavano i vestiti della domenica, cantavano il Credo assieme ai grandi proprietari terrieri, mettevano qualche soldo nel piattino delle offerte. Mio padre era chierichetto, gli piaceva accompagnare il curato a portare la comunione agli ammalati. Tutti gli uomini si toglievano il cappello al loro passaggio.
I bambini avevano sempre i vermi. Per scacciarli si cuciva una borsettina piena d’aglio all’interno della camicia, vicino all’ombelico. D’inverno, del cotone nelle orecchie. Quando leggo Proust o Mauriac, non credo che rievochino il tempo in cui mio padre era bambino. L’ambiente della sua infanzia è il Medioevo.
Per andare a scuola doveva fare due chilometri a piedi. Ogni lunedì, per timore dei parassiti il maestro esaminava le unghie, il bordo alto della canottiera, i capelli (…). Mio padre spesso saltava le lezioni per via delle mele da raccogliere, del fieno, della paglia da imballare, di tutto ciò che si semina e si raccoglie (…). A dodici anni, quando era nella classe che l’avrebbe portato al diploma, mio nonno l’ha fatto ritirare da scuola per metterlo a lavorare nella sua stessa azienda agricola. Non si poteva più continuare a nutrirlo senza che facesse qualcosa. “Non ci si badava, era lo stesso per tutti”.
Il libro di lettura di mio padre si chiamava “Le tour de la France par deux enfants”. Vi si leggono delle frasi strane, quali: “Imparare a essere felici della propria sorte”… “Al mondo non c’è nulla di più bello della carità del povero”… “Una famiglia unita dall’affetto possiede la migliore delle ricchezze”…
È l’unico libro di cui ha conservato il ricordo, “ci sembrava reale”.
Mungeva le vacche alle cinque del mattino, svuotava le scuderie, strigliava i cavalli, mungeva le vacche la sera. Come compenso, vitto, alloggio, il bucato, un po’ di denaro. Dormiva sopra la stalla, su un pagliericcio senza lenzuola. Le bestie sognano, battono le zampe per tutta la notte. Pensava alla casa dei suoi genitori, luogo oramai precluso. Una delle sue sorelle, che faceva la domestica, talvolta compariva al cancello, con il suo fagotto, muta. Il nonno imprecava, lei non sapeva dire perché se l’era data a gambe ancora una volta da quello che era il suo posto. La sera stessa lui la riportava dai signori presso cui era a servizio, facendola vergognare.»
Annie Ernaux, Il posto (trad. Lorenzo Flabbi).