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Fare la spesa a Milano al tempo del virus

by Luca Rampazzo
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Vi parrà strano, ma con tutti i negozi chiusi, la gente non rinuncia al supermercato. Dico proprio al supermercato, perché, tra tutte le cose aperte, ieri, si notava una linea di demarcazione. Il successo di un’attività commerciale, in questi giorni, si misura sui marciapiedi. Nell’andare (per la via più breve, come Cappuccetto Rosso dalla nonna e come il DPCM impone) a fare la spesa, ho preso alcune interessanti note. Il fruttivendolo bengalese non aveva coda. La povera fornaia col bar aveva solo la solitudine come cliente. L’emporio etnico era vuoto. La macelleria italiana faceva almeno dieci persone fuori di coda. E poi c’era il supermercato.

Il supermercato al tempo del virus è un’esperienza da raccontare agli eredi. Intanto funge, checché il Governo voglia, da centro di aggregazione sociale. Le file, ordinate e disciplinate va detto (pure qui nell’estrema periferia), con un metro di distanza regolamentare, chiacchierano. Gli anziani contano chi è sopravvissuto. Fai due punti se ci sei riuscito senza tossire. Tre se esci dalla quarantena.

Scorrono, le file. Ma si deve aspettare da quindici a trenta minuti per entrare. La cosa è surreale. Nelle mie due esperienze c’è stata solo un’esplosione di malcontento. Ieri si è chiuso persino un occhio sui pensionati che saltavano la fila. C’è stato solo un invito al rispetto delle regole quando alcuni anziani hanno tentato di allungare la fila nel supermercato. Un assalto al Palazzo d’Inverno al rallentatore con deambulatori e bastoni.

Quando sono uscito, la fila si era allungata. Erano le dieci del mattino. Visto quanto acquistavano gli altri clienti c’erano tre tipologie alla casse. La famiglia che faceva scorta. L’anziano che passava la mattinata. Ed il preso dal panico. Gli scaffali di alcuni beni durevoli erano già mezzi vuoti. La sensazione è che siamo sulle pendici di un alto monte. Ed al momento la gente non sa se scommettere sul fatto che vedremo la vetta, quindi prende precauzioni in caso di scivolone. L’umore, però, non era male. Una intrepida signora, alle 12 di ieri, in un condominio colpito dal Coronavirus, si è affacciata a cantare O mia bela Madunina. Il silenzio glaciale che ha accolto la perfomance fa capire molte cose.

Primo, siamo Milanesi. Quelli strani li abbiamo confinati nella zona dei Navigli. Una quarantena ante litteram. I lavoratori, i costruttori della vera città vivono eroicamente in periferia. Secondo, siamo la città della nebbia, del berretto calato in testa, gli occhi bassi e lavorare. Certi voli poetici sono come la palma: vivono in altri climi e se li trapianti in Piazza Duomo stonano. Non è il virus, è il DNA. Nonostante il potenziale epidemico di Milano, siamo ancora ad un numero limitato di contagi perché qua la quarantena l’ha imposta la cultura, mica la legge. Nel giro di qualche chilometro c’è solo un bar in cui si giochi a carte. E si è svuotato ben prima della prima ordinanza.

Per questo colpiscono le file al supermercato. Siamo gente che sta a casa. Anche perché, con quello che ci costa la vita qua, muoversi è una cosa per ricchi. Perché sono tutti fuori adesso? Capiamoci, non ci sono tavolate gaudenti. Ma file silenziose in attesa del proprio turno per cercare qualcosa sugli scaffali. Eppure è strano, sembra quasi che la gente non si aspetti il peggio. Ma lo pretenda. È come il dolore del protagonista in un film horror. Se manca ti fai rimborsare il biglietto. Oppure è la classica sfiducia degli ultimi. Non ci possiamo aspettare nulla di bene, quindi, siccome vogliamo aspettare anche noi come i ricchi, ci aspettiamo il peggio.

 

Tra le cose, che, giocoforza, abbiamo dovuto smettere di aspettarci è la spesa a domicilio. Esselunga consegna ormai ad una settimana. Amazon Prime ha un sistema davvero bellissimo. Per consegnare comunque entro 48 ore dall’ordine, esaurite le corse disponibili, chiude gli ordini. E li riapre a mezzanotte. L’altro giorno ho sfidato il sistema per poter avere una spesa più corposa. È un grande gioco di psicologia e sociologia. Devi trovare la fascia oraria meno appetibile per gli altri (che, dovendo stare tutti a casa, ci si domanda come faccia ad esistere). Devi farlo in fretta. Devi ricaricare la App che va giù di continuo. Ci ho messo dieci minuti, ma è sembrato un mese. In quarantena.

Ultima nota di colore, il signore, sull’ottantina, davanti a me in fila fuori dal supermercato aveva una bella mascherina. Sotto il naso, che restava esposto. Il valore era, quindi, puramente apotropaico. Alla fine, il mondo si divide in due, qui. Una parte ha la mascherina a costo di farsela in casa con la carta da forno. L’altra metà no. Se ne frega. I primi, per quel che ho visto io, sono italiani, mediamente anziani, ed hanno un’aria molto spaventata. I secondi sono più giovani e decisamente più multietnici e se ne fregano ampiamente. Sono piccoli segni dei tempi. Ma piccoli, in questi casi, non significa certo trascurabili.