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Gaza: due autobiografie, due terrori che si specchiano

‘Le spine e il garofano’, di Yahya Sinwar; ‘L’ostaggio’, di Eli Sharabi.

by Luigi Gravagnuolo
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Foto by Unicef Italia

 

Vale la pena leggerli assieme, in parallelo. Parliamo di ‘Le spine e il garofano’ di Yahya Sinwar, Editori della Luce, Milano 2024; e di ‘L’ostaggio’ di Eli Sharabi, Newton Compton Editori, Roma 2025. Sono due autobiografie.

 

La prima è del boia del 7 ottobre, il comandante che preparò, organizzò e due anni fa guidò l’assalto al Nova Festival e ai kibbutz confinanti con la Striscia. 1.200 civili israeliani trucidati, bambini decapitati, alcuni bruciati vivi, donne prima stuprate poi squartate. Neanche i nazisti dei campi della Shoah erano arrivati a tanta sadica ferocia. E ancora, 251 israeliani presi in ostaggio. Solo 20 di loro sono sopravvissuti. Operazione Diluvio al-Aqṣā, così Hamas chiamò quella strage. Yahya Sinwar è stato poi stanato e ucciso da un drone israeliano. È quello che, scopertosi rintracciato dal drone, gli scagliò contro il suo bastone. Lo ricordate, vero?

 

 

 

La seconda autobiografia è di uno dei venti ostaggi sopravvissuti, Eli Sharabi, 491 giorni prigioniero nei tunnel di Gaza, senza luce, affamato, torturato. Lui ce l’ha fatta, è tornato tra i suoi. Il suo libro è una denuncia della guerra, di tutte le guerre, un’implorazione di pace. Un inno alla speranza che un dialogo sia ancora possibile.

 

 

Sullo sfondo i circa settantamila palestinesi uccisi sotto le bombe dell’Idf e i poco meno di duemila israeliani caduti, tra il 7 ottobre e le successive battaglie.

Leggere a specchio queste due autobiografie è quanto di più utile possa esserci per capire le ragioni di tanto odio reciproco.

 

Le spine e il garofano’ è un libro onesto e ben scritto. Sinwar, oltre che un comandante di al-Qassam, era una persona di raffinata cultura. Due lauree, fisica e letteratura islamica, ed una penna scorrevole. Il racconto parte dalla sua prima infanzia e arriva a pochi giorni dalla sua eliminazione fisica. La frequenza delle scuole, dalle primarie alle medie fino al liceo e all’università. I primi amori, la famiglia allargata, la partecipazione ai movimenti degli studenti, poi all’Intifada. I maestri che ne influenzano la formazione politica. L’adesione a Hamas.

Il bambino Sinwar vede il mondo che lo circonda farsi giorno dopo giorno più cupo, costellato dai martìrii di ‘resistenti all’occupazione’. Martìrii che chiedono vendetta. Tra i màrtiri i suoi parenti più stretti. Poco alla volta il ragazzo si radicalizza. In famiglia e a scuola gli hanno insegnato quella storia della Palestina ‘a senso unico’ che è tanto diffusa anche tra noi: quella terra è palestinese, gli Ebrei sono degli usurpatori che la occupano abusivamente, vanno cacciati via ‘dal fiume al mare’ con la resistenza armata.

Ma essa, la resistenza, è dilaniata da lotte intestine. al-Fatah, il Fronte Popolare, la Jihād, i Fratelli musulmani, Hamas. Nella sua stessa famiglia suo fratello e suo cugino sono inquadrati in organizzazioni diverse. Inizialmente dialogano tra loro, approfondiscono le ragioni delle divergenze senza tuttavia perdere di vista l’obiettivo comune, la ‘liberazione’ della Palestina. Poi i sospetti reciproci. I servizi di Israele si infiltrano tra i ‘resistenti’, alcuni partigiani che si vendono. Le prime rappresaglie, palestinesi che uccidono palestinesi. Il sospetto, l’identificazione di ogni dissenziente con un infiltrato dello Shin Bet. Fino all’aperta guerra intestina contro l’ANP, iniziata a seguito degli accordi di Oslo tra Arafat e Rabin e conclusasi nel 2007 con la eliminazione fisica a Gaza di chiunque non fosse di Hamas o non ne sostenesse il regime, pur magari standosene in disparte. Di mezzo gli attacchi agli ‘occupanti’, le bombe sui bus del trasporto pubblico, le auto e i furgoni lanciati sui luoghi di assembramento degli israeliani, che fossero una fermata di una stazione di bus o un luogo di incontri. Le stragi dei civili. In Europa ne sappiamo qualcosa tra il Bataclan, Charlie Ebdo e la strage di Nizza. L’euforia che prende non solo i combattenti della resistenza, ma la gran parte della popolazione di Gaza per ogni colpo inferto agli occupanti, per ogni ebreo ucciso. Sinwar registra candidamente come tutte le azioni di repressione attuate da Israele nei confronti della popolazione di Gaza siano avvenute a seguito di azioni della resistenza che avevano portato all’uccisione di israeliani, soldati o civili.

 

Eli Sharabi per parte sua, ne ‘L’ostaggio’, racconta la Palestina – la terra di Palestina, non la sua entità politica – dall’altro punto di vista.

Lui riesce anche a stabilire un dialogo amichevole con i suoi carcerieri, conviene che sì, è vero che anche dietro un terrorista c’è un essere umano. Ma l’ideologia, alimentata dalla paura, dalla rabbia e dallo zelo religioso, zittisce l’umanità.

Paura, rabbia, zelo religioso che attraversano anche la società israeliana.

Il senso di inquietudine che ogni israeliano avverte fin dai primi anni di vita. La paura di essere assassinati in un agguato, i rifugi sotto ogni residenza nei quali più volte si fugge per ripararsi da missili, la diffidenza verso ogni palestinese che, magari fingendosi amico, può essere uno che ti tira in un’imboscata.

I carcerieri di Sharabi gli ripetevano ossessivamente: ‘Questa terra non è vostra. Non ci sarà pace finché voi ebrei occuperete la nostra terra!’ L’incomprensione del perché dell’odio. In quella terra non c’era mai stato uno Stato della Palestina presuntamente occupato da Israele. La convinzione che più si allontana la frontiera dal suolo di Israele più speranze hanno gli Ebrei di potersi difendere. Difendere, non vivere in pace. E si, perché è difficile, se non impossibile per un israeliano credere oggi alla possibilità di una convivenza pacifica.

E in verità è difficile per tutti, anche per chi non vive in quella terra insanguinata.

 

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