Di per sé, indipendentemente dal suo esito, il referendum confermativo della Riforma Nordio della Giustizia rischia di mettere a repentaglio i delicati equilibri istituzionali della nostra Repubblica.
Il pericolo maggiore è che esso venga percepito come un referendum sulla magistratura. Non su questo o quell’aspetto del nostro ordinamento giudiziario, sulla magistratura in se stessa. E sono non pochi i passaggi del testo della riforma che avvalorerebbero una sua lettura come ‘punitiva’ nei confronti di una istituzione, quella giudiziaria, che avrebbe abusato e abuserebbe dei propri poteri nei confronti dei cittadini. Soprattutto, nei confronti della politica.
Rischio minore, non per questo meno preoccupante, è che gli Italiani vengano indotti a votare sulla Meloni o sulla Schlein, piuttosto che sulla riforma. Della serie, vi sta bene il nostro governo? votate Si; vi sta male? votate No. Se quindi vincessero i Si sarebbe il trionfo del centrodestra; viceversa, se vincessero i No, sarebbe quello dell’opposizione, con conseguente dovere morale per la premier di rassegnare le dimissioni.
Abbiamo definito questo un ‘rischio minore’ perché, qualora prevalesse la lettura ‘politica’ del referendum, tutt’al più ci sarebbe un cambio di assetto politico parlamentare, non una crisi istituzionale. Che al contrario si aprirebbe senza alcun dubbio qualora il risultato del voto comportasse una delegittimazione morale della magistratura in quanto tale.
I primi passi della campagna referendaria tuttavia sono rassicuranti, sembra che la classe dirigente del nostro Paese sia consapevole di questo rischio e che stia tentando di scongiurarlo. Personalità di primo piano della magistratura, bersaglio della riforma presunto o reale che sia e che perciò dovrebbero essere per il No, si sono apertamente schierate per il Si. Tra i più noti i piemme Giovanni D’Avino e Giuseppe Capoccia; l’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvato; Giuseppe Zanon già presidente della Corte Costituzionale; il co-protagonista del pool mani pulite Antonio Di Pietro.
Dall’altro lato celebri penalisti, che in teoria dovrebbero essere favorevoli alla riforma, si stanno schierando per il No. Si pensi a Tom Servetto, penalista torinese di lungo corso, redattore della rivista ‘Voce dell’Agorà’, che ha definito la riforma ‘pura demagogia priva di sostanza’; a Fabio Repici, che ha espresso una posizione fortemente critica, definendo la riforma un ‘rischio pericoloso per il diritto dei cittadini alla verità giudiziaria’; al ‘Comitato dei 41 docenti universitari di procedura penale’ che hanno firmato un appello contro la riforma, sostenendo che essa toglierebbe garanzie fondamentali agli imputati più deboli e comprometterebbe l’assetto costituzionale; a Enrico Grosso, penalista, costituzionalista e professore ordinario a Torino, che ha accettato di presiedere il Comitato nazionale per il No lanciato dall’ANM.
Minori i distinguo tra i politici. Non stiamo riscontrando voci autorevoli della maggioranza di governo che si stiano pronunciando per il No, né di leader politici del centro sinistra che si stiano schierando per il Si; a meno che non si voglia considerare Carlo Calenda come un esponente del centrosinistra. Pur se c’è da dire che in molti a sinistra, specie di discendenza Psi o Dc, magari senza sbandierarlo, si dicono decisi a votare Si. Ma è la politica nel suo insieme ad essere tentata fortemente di politicizzare il referendum, presentandosi il centrodestra come il campo dei tutori dei diritti dei cittadini vittime delle ‘toghe’ e il centrosinistra come quello dei difensori della magistratura, oggetto di un tentativo di addomesticamento autoritario. Tale politicizzazione determina una evidente riluttanza degli esponenti dell’uno o dell’altro campo a dichiararsi in discordanza con le posizioni ufficiali dei propri partiti.
E i cittadini elettori cosa stanno comprendendo dello scontro in atto? Poco.
A parte quelli in qualche modo collocati politicamente, che senza neanche sforzarsi più di tanto di analizzare il merito della riforma voteranno secondo le indicazioni dei loro riferimenti, tutto il resto del corpo elettorale sta ancora cercando di farsi un’idea. C’è da credere che quanti resteranno nel dubbio o nell’incomprensione non si recheranno alle urne o voteranno scheda bianca. ‘Che diritto ho io – si diranno – di decidere su una cosa tanto importante di cui però non ci capisco nulla?’
C’è l’eventualità concreta che si crei un circolo vizioso: i cittadini non schierati pregiudizialmente non capiscono o si disinteressano; restano a confrontarsi solo quelli politicizzati o gli interessati professionalmente, avvocati e magistrati; e il confronto diventa tutto politico o corporativo, con i rischi di cui abbiamo fatto cenno in apertura.
Da quanti avvertono la responsabilità di sminare il terreno da questa vera e propria bomba a orologeria – diciamo della delegittimazione della magistratura – dalla stampa indipendente in particolare, andrebbe fatto uno sforzo importante per chiarire con una comunicazione accessibile a tutti su cosa voteremo. Che non è – diciamolo e ripetiamolo – la separazione delle carriere, che nei fatti già c’è.
Non è essa la parte più innovativa della riforma. Lo sono invece la divisione del Consiglio Superiore della Magistratura in due, un CSM dei magistrati giudicanti ed uno dei magistrati requirenti, con l’aggiunta di un terzo organo, l’Alta Corte di Disciplina; il sorteggio dei magistrati che faranno parte di questi tre delicati organi giudiziari; l’obbligo per i magistrati sanzionati dall’Alta Corte – contrariamente a quanto previsto dall’ordinamento vigente per il quale il magistrato sanzionato dal CSM può ricorrere in appello alla Cassazione – di dover invece ricorrere in appello alla stessa Alta Corte che lo ha già sanzionato in prima istanza, sia pure con un collegio giudicante composto da membri diversi da quelli della prima istanza.
Alla fine, cosa cambierà per i cittadini, in particolare per quelli che per una ragione o per un’altra nella loro vita avranno a che fare con i procedimenti giudiziari? E per la stabilità delle istituzioni? E per il carattere intrinseco della nostra democrazia? Sarà difficile, quasi arduo riuscirci, ma è doveroso un impegno da parte della stampa e dei media per spoliticizzare o de-corporativizzare il confronto elettorale.
