Alla metà degli anni Trenta, l’Unione Sovietica sembrava affacciarsi a una nuova fase della propria storia. Le cicatrici della collettivizzazione erano ancora aperte ma le città crescevano, l’industrializzazione procedeva a passo spedito e la propaganda celebrava con entusiasmo i successi del secondo piano quinquennale. Era l’immagine ufficiale di un paese sicuro di sé, convinto di aver imboccato la strada giusta. Ma dietro quella superficie si andava addensando un clima di sospetto e paura destinato a esplodere nel più vasto e sistematico processo repressivo della storia sovietica: il Grande Terrore.
Il 1° dicembre 1934 segnò una svolta decisiva. In quel giorno, Sergej Kirov, uno dei leader più popolari del partito e capo del comitato di Leningrado, venne assassinato nei corridoi della sede locale. Il delitto non fu mai completamente chiarito, ma Stalin ne colse immediatamente il potenziale politico. L’omicidio fu presentato come la prova di una cospirazione interna diretta a colpire il vertice del regime e fu il pretesto per avviare una repressione che, nel giro di pochi anni, avrebbe travolto l’intera vecchia guardia bolscevica.
Lungi dal limitarsi a colpire presunti oppositori, Stalin trasformò il delitto Kirov in un argomento per giustificare la necessità di un controllo totale. Iniziò così un processo di epurazione che coinvolse tutti i livelli del partito, dell’esercito e dell’amministrazione. Gli uomini che avevano affiancato Lenin nei giorni della rivoluzione vennero accusati di sabotaggio, tradimento, spionaggio per potenze straniere e complotti immaginari che si intrecciavano in narrazioni sempre più deliranti. I processi pubblici, messi in scena tra il 1936 e il 1938, divennero una rappresentazione politica del nuovo ordine: imputati come Zinov’ev, Kamenev, Bucharin o Rykov confessavano colpe impossibili, spesso dopo torture o pressioni psicologiche, offrendo allo Stato la prova rituale della propria devianza e, paradossalmente, della propria sconfitta definitiva.
In questo clima nessuno era al sicuro. La polizia politica ricevette poteri eccezionali e bastava una denuncia anonima, una parola equivocata o un contatto sospetto per essere accusati di attività controrivoluzionaria. Le categorie colpite si moltiplicarono: ex kulaki, tecnici accusati di “sabotaggio industriale”, minoranze nazionali sospettate di simpatie straniere, ufficiali dell’Armata Rossa ritenuti inaffidabili. Nel 1937, in un colpo solo, venne decapitato l’alto comando militare; i vertici dell’esercito, accusati di complottare con la Germania, furono giustiziati o internati nei lager. A posteriori, considerando l’imminente scoppio della Seconda guerra mondiale e le appena citate politiche di persecuzione verso i veterani dell’esercito, si può dedurre che Stalin non immaginasse che di lì a poco si sarebbe trovato a scendere in campo contro il potentissimo esercito tedesco.
Il terrore non riguardò soltanto il mondo politico. Intere comunità vennero travolte da operazioni di pulizia sociale e nazionale. In molte regioni furono presi di mira polacchi, tedeschi del Volga, finlandesi o ucraini considerati “elementi potenzialmente ostili”, spesso deportati in massa verso la Siberia o il Kazakistan. Allo stesso tempo, gli intellettuali venivano sottoposti a un rigido controllo ideologico; la cultura si uniformò ai dettami del realismo socialista e ogni deviazione poteva essere considerata un segnale di slealtà politica.
La logica del terrore, tuttavia, non fu mai totalmente lineare. Non si trattava semplicemente di eliminare oppositori reali o potenziali, ma di rimodellare la società secondo un principio di obbedienza assoluta. La paura divenne uno strumento di governo, un mezzo per disarticolare qualsiasi forma di autonomia locale e per garantire che ogni centro di potere, anche il più piccolo, rispondesse direttamente a Stalin. La rivoluzione culturale di quegli anni impose ai cittadini un nuovo codice di comportamento: fedeltà totale allo Stato, vigilanza contro il “nemico interno” e capacità di dimostrare, quotidianamente, il proprio impegno socialista.
Tra il 1936 e il 1938 il meccanismo raggiunse il suo apice. Centinaia di migliaia di persone furono arrestate, e molte di più vennero sfiorate dall’ombra della repressione. Il Gulag si espanse a ritmi impressionanti, inglobando una popolazione sempre più vasta e diversificata. Le famiglie venivano spezzate, i colleghi scomparivano da un giorno all’altro, gli studenti vedevano i propri insegnanti arrestati senza spiegazioni.
Quando il Terrore cominciò ad attenuarsi nel 1939, l’Unione Sovietica non era più il paese che era stato all’inizio del decennio. La vecchia guardia rivoluzionaria era stata eliminata e al suo posto si era consolidata una nuova classe dirigente selezionata per fedeltà al leader più che per merito. La società era stata disciplinata, il partito centralizzato, l’esercito spezzato e ricostruito secondo criteri di fedeltà personale. La rivoluzione, nata per abbattere il potere autocratico, aveva finito per generare un sistema ancora più centralizzato in cui la volontà di un solo uomo definiva i confini della vita pubblica e privata.
Il lavoro forzato dei prigionieri, impiegati soprattutto nei campi della Siberia nel taglio del legname, nell’estrazione di materie prime e nelle grandi opere infrastrutturali, arrivò a rappresentare una componente essenziale dell’economia sovietica. Secondo le stime più accreditate, il contributo del Gulag raggiunse fino al 30% della produzione complessiva in alcuni settori strategici, rendendo il sistema dei campi non solo uno strumento di repressione politica ma anche un pilastro della pianificazione economica del paese.
Per definire quella che considerava una deviazione della prima ora rivoluzionaria, Trockij adoperò il termine “stalinismo”, per sottolineare la responsabilità di Stalin nell’aver generato un regime totalitario completamente centralizzato e dipendente dalla sua persona.
Per decenni si è discusso sulla natura totalitaria del regime sovietico. La quasi totalità degli studiosi concorda nel ritenere che il periodo staliniano abbia assunto, nei fatti, caratteristiche chiaramente totalitarie: controllo capillare della società, repressione sistematica del dissenso, culto del leader e pianificazione ideologica della vita pubblica. Molto più controversa è invece la questione se il bolscevismo, già nelle sue origini, contenesse in sé i germi di uno Stato totalitario o se tali derive siano state il risultato di scelte politiche e contingenze storiche successive.
Chiaramente, ogni interpretazione dipende dal concetto di totalitarismo che si adotta. Se si rimane fedeli alla definizione elaborata nel corso del Novecento, quando il termine “totalitario” apparve per la prima volta in Italia per descrivere la natura del regime fascista, un sistema politico può dirsi tale quando presenta alcuni tratti fondamentali: un’ideologia ufficiale che orienta ogni aspetto della vita pubblica, un partito unico dotato di un ruolo guida, un leader carismatico riconosciuto come riferimento infallibile, il controllo centralizzato degli strumenti di informazione e propaganda e, infine, un’economia sottoposta alla direzione politica.
Alla luce di tali criteri, è evidente che il regime sovietico assunse pienamente caratteristiche totalitarie solo con l’ascesa di Stalin, quando il controllo del partito si fece assoluto, il culto del leader diventò una componente imprescindibile della vita pubblica e la repressione di massa trasformò il dissenso in un crimine politico. Prima dell’ascesa di Stalin, il regime sovietico non aveva ancora consolidato pienamente il proprio potere e si muoveva spesso all’interno di uno scenario segnato da emergenze politiche, conflitti interni e instabilità economica. Questa condizione di fragilità rende difficile attribuirgli una definizione univoca e definitiva: l’apparato era autoritario e repressivo, ma ancora lontano dalla compiutezza totalitaria che avrebbe assunto negli anni Trenta. Dopo la morte di Stalin, al contrario, i leader successivi, a partire da Chruscëv, cercarono di smantellare gli elementi più oppressivi del sistema, riducendo il potere arbitrario della polizia politica, allentando il controllo ideologico e restituendo spazi limitati di autonomia alla società. Il tentativo non fu mai radicale né pienamente riuscito, ma segnò comunque una discontinuità significativa rispetto alla stagione del terrore e alla rigidità del modello staliniano.
