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Il napoletano di Geolier come il francese delle banlieue

by Piera De Prosperis
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Tra le polemiche che, come ogni anno, hanno accompagnato il festival di Sanremo, evento clou dei palinsesti nazionali, vi è quella relativa al napoletano del cantante Geolier. E’ vero dialetto? Ne è una deformazione? E’ incomprensibile? Lo scrittore De Giovanni, prima dell’esibizione, aveva detto che la lingua napoletana non merita tanto strazio. A cui il rapper aveva risposto: “È il mio dialetto, è il mio rap e… sembra mi capiscano, non solo a Secondigliano, non solo a Napoli, non solo in Campania. Nel mio flow, magari un po’ rionale, le vocali sono poche, le parole vengono triturate per correre veloci, per seguire il ritmo, il flusso. L’hip hop è slang, gergo, linguaggio di strada, anche nello scrivere ne devi rispettare le radici”.

Risposta saggia e confortata dalla visione d’insieme dello sviluppo non solo delle lingue ma dei dialetti in particolare. Direi anzi che datato e supponente è il commento dell’autore dei Bastardi. Ma di quale lingua stiamo parlando? Esiste una lingua napoletana che con la sua grammatica possa racchiudere un rigido complesso di regole? L’Unesco ha riconosciuto il napoletano come lingua in via d’estinzione: anche questo campanello d’allarme mi sembra eccessivo. Che non si parli più a Napoli come Basile o come Eduardo è sicuramente vero, ma perché in realtà le lingue si adeguano alla realtà di cui sono espressione. Avete mai provato a leggere il Pentamerone in lingua originale e non nella traduzione di Croce? E’ lontano da noi come lo è l’italiano del Decameron che ha bisogno di molte note esplicative. Per i ragazzi leggere Boccaccio è un tormento e lo è anche per i docenti spiegarlo ed analizzarlo.

Quindi quale realtà rappresenta il napoletano di Geolier? Quella realtà cui dà voce la musica hip-hop, rap e trap. La musica delle periferie urbane. Quella dei giovani, per intenderci, di San Giovanni a Teduccio, Secondigliano, Scampia. Quelle aree degradate in cui esprimersi in italiano significa essere fuori dal gruppo, un corpo estraneo non riconosciuto dal contesto. Fa il paio con il francese delle banlieue ed è la voce del disagio che non può esprimersi con la lingua dell’ufficialità. Perché utilizzare il napoletano? Perché tanti giovani usano questa forma espressiva? Perché forse il nostro dialetto si avvantaggia di una tradizione che non esiste per esempio nel milanese, o in un qualunque altro idioma. Ma non può essere quel napoletano di eduardiana memoria. Deve essere non solo adeguato ai suoni della musica contemporanea ma soprattutto sminuzzato, sfilacciato, corrotto come lo sono gli ambienti da cui provengono questi ragazzi. Non è un caso che Geolier sia un avvenimento mediatico per il successo che ottiene non solo e non tanto nella nostra area metropolitana ma in tutta Europa e oltre.

A Sanremo ho scoperto anche Ghali che utilizza un mix di tunisino e italiano nella sua produzione per esprimere il disagio dei nuovi giovani italiani, immigrati di seconda o terza generazione ancora non riconosciuti come veri italiani. Insomma, cosa ci racconta questa edizione del Festival a livello linguistico, che definirlo della canzone italiana è riduttivo? Che i messaggi di integrazione, protesta, solitudine passano in altro modo, più vero ma non purista, che accomuna i giovani di tutta Italia indipendentemente da Nord e Sud.

Maurizio De Giovanni si è dimesso dalla presidenza del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano, in polemica con la vicinanza dello stesso Comitato alla scrittura dei testi del rapper. Pur avendo capito poco o quasi niente della canzone di Geolier, l’immagine che ha offerto a livello linguistico mi è sembrata interessante. Del resto ho capito poco anche dei testi proposti in italiano.