Il retaggio dell’economicismo marxista attribuisce le cause delle guerre agli interessi economici dei capitalismi in competizione. Non è del tutto errato, molte guerre hanno avuto effettivamente questa genesi. Ma più frequenti ancora sono stati e sono tuttora i conflitti provocati da despoti di vario genere a fini di potere personale e di clan.
In tutti i regimi autocratici, o dittatoriali tout court, quando la leadership va in difficoltà nel proprio paese, enfatizza i pericoli esterni; va alla ricerca del nemico da additare ai propri ‘sudditi’ come la vera causa delle difficoltà interne; e, se si sente forte militarmente, provoca una guerra. Contestualmente gli oppositori interni vengono tacciati come nemici al soldo dello straniero e parte l’eliminazione del dissenso con metodi più o meno brutali.
A sua volta l’aggressività dei paesi autocratici e le guerre da questi portate alle democrazie danno l’adito ai cospiratori interni a quest’ultime di ridurre gli spazi di libertà nei propri paesi – spazi di libertà già di per sé difficili da difendere in tempi di guerra – spesso trasformando di fatto gli stessi paesi democratici in nuove autocrazie.
Guardiamoci attorno dunque e chiediamoci quante democrazie ancora reggono alle pressioni populiste, apripista delle dittature. Poche, pochissime. Il presidente americano Trump e il premier israeliano Netanyahu, ad esempio, rientrano in toto in queste dinamiche. È lampante che le democrazie USA e israeliana sono a rischio. Bastano queste constatazioni, purtroppo oggettive, per farci riflettere su quanto sia alto oggi il pericolo di una guerra mondiale. Meno democrazie più autocrazie, uguale più guerre. È quasi un assioma aritmetico.
Ma, se vogliono reggersi al potere, una volta provocato un conflitto le autocrazie devono anche uscirne vittoriose. Se il popolo di un paese autocratico si rende conto che i propri leader non solo lo hanno portato in guerra, con tutti i lutti che ne derivano, ma ne sono usciti sconfitti epperciò anche indeboliti, per il despota di turno non c’è scampo. Mussolini docet.
Pertanto, se il controllo capillare dei flussi della comunicazione glielo consente – cosa però per niente facile nel tempo di internet – il potere autocratico canta vittoria anche a fronte di una sconfitta. Vedi le grottesche fanfaronate di Khamenei in queste ore.
Il teatrino mediatico planetario è così diventato tutta una corsa a chi è il più forte, il più vincente, il più great del pianeta. E guai se un giornalista si permette di mettere in dubbio i proclami del leader, gli va di lusso se viene ‘solo’ licenziato!
In questo scenario come stanno andando le cose nella Russia di Putin? Qual è il reale stato di salute del suo potere al di là della propaganda trionfalista? Difficile indagare in assenza di libertà di pensiero e di stampa in Russia. Non si riesce neanche a sapere quanti giovani sono stati finora sacrificati sull’altare dell’idiosincrasia dello zar verso la democrazia ucraina. Qualche analista ipotizza addirittura la cifra spaventosa di un milione tra morti e mutilati senza che da un anno a questa parte la ‘conquista’ di territorio ucraino segni avanzate considerevoli. Tant’è che l’oligarca, a fronte della tenacia della resistenza ucraina al fronte, continua ad ordinare criminali bombardamenti sui civili.
Quanto al posizionamento geopolitico della Federazione Russa, da quando lo zar ha avviato la guerra l’arretramento è evidente. Isolata dall’Europa, la Russia è stata estromessa dalla Siria – dove su Aleppo la sua aviazione aveva perpetrato uno dei più crudeli bombardamenti a tappeto dai tempi di Guernica, mirando a ospedali, scuole, mercati e condomini privati – e vede sgretolarsi giorno dopo giorno la forza politica e militare dell’Asse della resistenza capeggiato dall’Iran, suo alleato di ferro. Al momento le restano come alleati solo le bizzose complicità bombarole di Kim Jong-un e il sostegno della Cina di Xi Jinping, alla quale la Russia diventa ogni giorno più subalterna.
E l’economia come va? Sta reggendo alle sanzioni? Anche qui possiamo procedere solo per deduzioni, basandoci su una lettura politica delle esternazioni dello stesso leader del Cremlino.
Nei giorni scorsi, dal 18 al 21 giugno, si è tenuta la 25^ edizione del Forum di San Pietroburgo (SPIEF), tradizionale vetrina dei fasti della gloriosa Russia di Putin in campo economico e finanziario. La partecipazione è stata straordinaria con delegazioni di 144 Paesi e i risultati importanti, con la firma di oltre mille contratti per un valore di circa 85 miliardi di dollari, però definiti in rubli. Eppure non sono stati solo rose e fiori.
Nel suo intervento, conclusivo della sessione plenaria, lo zar ha sottolineato due cose: prima, la recessione in Russia non ci sarà perché sarà lui ad impedirlo; seconda, ormai in tutto il mondo non c’è più distinzione tra industrie civili e industrie belliche perché le loro rispettive produzioni sono ambivalenti.
È successo che Putin si è trovato a dover rispondere a critiche esplicite rivoltegli da autorevoli esponenti del suo stesso establishment, per giunta davanti ad un consesso internazionale di tanto prestigio. Difficile immaginare che i suoi più stretti collaboratori non gliene avessero parlato prima. Se hanno esternato le loro considerazioni in pubblico qualcosa vorrà pur dire.
Alexandr Shokhin, presidente della ‘confindustria’ russa, ha denunciato senza giri di parole che molte imprese sono ormai sull’orlo del default; e il banchiere Andrey Kostin ha rincarato la dose, informando il leader e il mondo che le imprese russe per un verso non riescono più ad accedere al credito perché i soldi delle banche sono finiti, per un altro stentano a restituire i crediti già ottenuti.
Tradotto, il sistema industriale e quello bancario della Russia sono sull’orlo della bancarotta, altro che recessione! Né a sventarla può subentrare lo Stato, perché il deficit pubblico si è triplicato e sono i finiti i soldi anche nelle casse della Federazione. Ed allora molte banche stanno procedendo all’esproprio delle imprese insolventi e lo Stato alla loro nazionalizzazione.
Espropri, nazionalizzazioni, sembrano cose astratte; ma dietro ogni bene espropriato c’è un oligarca della prima ora che si vede spodestato dai nuovi boiardi dell’industria bellica, gli unici che si stanno arricchendo. Le tensioni tra vecchia oligarchia e nuova sono molto alte. Questo spiega il senso dell’affermazione di Putin, secondo il quale nel mondo intero non ci sarebbe più distinzione tra industria civile e industria bellica e perciò quello che sta accadendo in Russia sarebbe in linea con le tendenze più ‘innovative’ del mondo. Un tentativo di mediazione e di rassicurazione che sarà lui a garantire che i nuovi boiardi non scalzino del tutto i vecchi.
Tutto dunque lascia pensare che lo zar stia finendo in un vicolo cieco. E lui non trova altra idea per uscirne che rivendicare una vittoria totale in Ucraina, che ‘è russa e tornerà tutta alla madre patria’. E giù bombe sulle città e stragi di civili.