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“In Pellegrinaggio verso Delfi”, di Massimo Corsale

il ritorno a Parmenide contro Severino

by Bruno Gravagnuolo
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E’ singolare e contro corrente la tesi di Massimo Corsale su Parmenide racchiusa nel suo denso volume “In Pellegrinaggio verso Delfi”, Ibs edizioni 2025. Sorta di monumentale auto biografia filosofica dell’autore. Ecco la tesi: Parmenide come teorico della doxa/opinione e non dell’Essere come unica sostanza vera e immutabile. Per il sociofilosofo novantenne molto noto a Napoli e Salerno, sarebbero stati Zenone e Melisso, suoi allievi nel VI secolo, ad aver traviato il vero pensiero dell’Eleate. Che in realtà voleva solo mostrare l’utilità euristica della copula “e” come strumento universale per capire e descrivere i fenomeni e articolare ogni discorso vero. Talché, anche il non essere in quanto esclusione di alcunché, resterebbe sempre un essere del qualcosa. Di altro, che vien solo negato in una proposizione. E non annientato come sostiene Severino, assertore della eternità degli enti in Parmenide, tutti fin da sempre immobili nella struttura originaria dell’Essere.

Insomma, Corsale nel suo volume propone un ritorno a un Parmenide empirista, naturalista, addirittura convenzionalista e sofista ante litteram. Addirittura alla Popper, che riteneva il Mondo di Parmenide un mondo quasi naturalistico e scientifico. Più in là ci torneremo. Ma già questo lascia capire la proposta di Corsale: una filosofia scettica ed empirio criticista – che avrebbe fatto infuriare Lenin – fenomenologica e anti-speculativa. Una vera e propria gigantesca scorribanda da Parmenide all’empirismo critico humeano e al moderno convenzionalismo operativo. Se non alla anarchia scientifica di Feyerabend.

Per cui la verità non esiste ed è solo di volta in volta progetto pratico, scientifico, etico e politico. Ovviamente ancorato al dialogo e alle pratiche democratiche e sperimentali. Sul finire però nel libro torna ad affacciarsi una eco metafisica e ontologica, nella pratica del silenzio e dell’ascolto di un essere come orizzonte indefinibile eppur necessario e per Corsale presupposto alla coscienza vivente e pensante. Un paradosso viste le premesse fin qui esposte? Si e no. Perché se è vero che Corsale nega ogni fondamento e ogni platonismo – Platone è la sua bestia nera – ritorna in lui l’esigenza e la forza di un senso inteso come necessità di dar senso alla conoscenza e alla vita. Nel senso, con bisticcio di parole, che la non contraddizione logica è inseparabile da ogni affermazione di una verità sia pur provvisoria da condividere tra gli umani e i parlanti, fossero anche i più sofisti e scettici degli umani. E quindi un qualcosa di generale e sensato occorre pur presupporlo quasi come istanza biologica della specie parlante. Talché se è vero che non esistono entità o forme prefissate, idee platoniche, e che il concetto di ogni cosa è solo funzione, percetto ragionato e convenuto, sta di fatto – suggerisce Corsale – che una totalità che racchiuda idealmente tutte le parzialità relative delle teorie e delle vedute va comunque presupposta. Come in Kant stesso oltre che in Hegel. Magari inesprimibile ma reale. E del resto non parla l’astrofisica moderna di “teoria del tutto”? E di universo conosciuto in espansione? Persino la scienza più rigorosa ed empirica non può bandire la questione della verità e in definitiva dell’Uno tutto, dell’Inizio e dunque la necessità di una “metafisica concreta” come scrive Cacciari nel suo ultimo volume Adelphi. In conclusione però una cosa balza chiara a chi scrive, concordando: unica via al conoscere non può essere che l’esperienza sensibile tradotta in ipotesi e teorie da falsificare. Le cui parzialità via via superate non ne inficiano mai del tutto il granello provvisorio di verità, da integrare in sintesi più vaste. Proprio come Einstein integra Galilei e Newton e non li cancella affatto. E così come le moderne teorie del lavoro post-industriale non cancellano affatto il tema del lavoro espropriato e assoggettato, di cui parlava Marx. E inoltre, il fatto di poter conoscere integrare e correggere le verità alla luce dei dati e in teorie falsificabili, mostra che il mondo è conoscibile e risponde alle domande della scienza. Ma non già per effetto manipolativo arbitrario, bensì perché appunto corrisponde, ed è come predisposto a certi schemi si e ad altri no. Del resto se la specie umana è generata dalla natura e sboccia in essa evolutivamente, essa deve pur contenere in nuce gli strumenti neuro fisiologici che consentono l’incontro tra natura e scienza. Mentre altra cosa è l’uso e l’abuso della tecnica.

Quanto a Parmenide, e qui torniamo al principio del libro, sarebbe bello poterlo interpretare come un empirista come fa Corsale. E cancellare così ogni metafisica ontologica, che poi rispunta anche in Corsale come s’è visto. Peccato però che Parmenide stesso riteneva follia l’opinare, “mania” scriveva in senso spregiativo. Follia di chi pensa con due teste: eternità da un lato, divenire dall’altro. Essere Uno e molteplicità cangiante. Al punto che l’Eleate affermava che gli enti stessi, le cose stesse non esistevano “se non come nomi e ombre”. Il che non è precisamente l’elogio scettico dell’esperienza operativa bensì il suo contrario: la condanna dell’esperienza sensibile come inganno. Perciò a meno di scoperte filologiche clamorose – abbiamo solo frammenti del suo poema – Parmenide resta il venerando e terribile padre logico di tutta la metafisica occidentale e non il suo opposto. E questo strano ritorno a Parmenide capovolto rispetto a Severino di Corsale è almeno per ora rimandato.

 

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