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Jebreal: “La guerra mi ha reso più brutta”

Rula Jebreal

by Ernesto Scelza
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Rula Jebreal è una giornalista esperta di politica internazionale. Cresciuta a Gerusalemme e segnata dall’occupazione militare israeliana, vive negli Stati Uniti da anni, dove collabora con reti televisive CNN e MSNBC, e scrive per il Washington Post e il New York Times. “Dopo una vita trascorsa a interrogarmi… su come il mondo abbia potuto permettere catastrofi come l’Olocausto, ho trovato la risposta tra le macerie nella mia terra martoriata, a migliaia di chilometri di distanza dai campi di sterminio europei. Scrivo questo libro perché il genocidio di Gaza mi ha cambiata nel profondo. Ha rivelato il vuoto morale e politico di un mondo che riduce l’umanità a una gerarchia di morte. Scrivo affinché nessuno, in futuro, possa dire di non sapere o che non poteva sapere… Scrivo perché le mie parole possano aiutare a impedire che il genocidio di Gaza diventi una dottrina da esportare nel resto del mondo, un modello da applicare ogni volta che il potere decida di avere ragione della ragione, minacciando la sicurezza e l’esistenza dell’umanità stessa”. ‘Genocidio’ è un libro duro ma necessario che richiama la società civile e la politica alle loro responsabilità e alle loro colpe. 

 

«Quasi la metà delle vittime, a Gaza, sono bambini: almeno ventunomila sono dispersi, corpi ridotti a brandelli che non sarà mai possibile identificare. Migliaia sono mutilati. La violenza nei loro confronti è tutt’altro che cieca: i bambini sono un obiettivo non solo esplicito ma privilegiato delle forze armate israeliane (…).

Migliaia vanno avanti, orfani, vagando tra macerie che un tempo erano le loro case, circondati dai corpi insepolti dei loro familiari. Alcuni sono stati costretti ad ascoltare le voci dei loro cari intrappolati sotto le rovine per giorni, un’agonia senza fine. A questa visione si aggiunge un dettaglio che sembra quasi grottesco nella sua brutalità: i bambini non nuotano solo in un mare di sangue, ma anche in un fiume di liquami, poiché Israele ha bombardato tutte le fognature, trasformando Gaza in un inferno insostenibile.

In queste condizioni, non è raro che molti di loro esprimano il desiderio di morire. È una dichiarazione agghiacciante, ma anche il segno inequivocabile di un trauma che li segna nel corpo e nell’anima. Intanto, l’istruzione – un pilastro fondamentale per la speranza e la ricostruzione, così attentamente curata dai palestinesi, famosi fra gli arabi per essere il popolo più dedito agli studi (“dove c’è un libro c’è un palestinese” suona un detto molto diffuso) – è stata spazzata via. Oltre seicentoventicinquemila bambini sono stati privati della scuola, perdendo non solo l’opportunità di imparare, ma anche un rifugio psicologico dal caos che li circonda. Togliere con violenza a così tanti bambini il loro diritto all’istruzione significa spegnere i loro sogni e minare alle radici il potenziale di una società che avrebbe potuto risorgere. La guerra, infatti, non si limita a distruggere edifici o infrastrutture: elimina le fondamenta stesse del futuro, privando un’intera generazione del diritto all’istruzione, alla crescita e alla dignità.

(…) E poi c’è la fame. Una fame non casuale, bensì causata a tavolino, scientificamente, e utilizzata come arma di guerra, come mezzo per fiaccare una popolazione già stremata. (…) La denutrizione nei primi anni di vita pregiudica lo sviluppo futuro del bambino, fisico e cognitivo, oltre psicologico: anche la fame di oggi, cercata e voluta con fredda ferocia, è un assassinio del domani. L’80% dei residenti di Gaza, tra cui molti bambini, dipende da anni dagli aiuti umanitari. Eppure, il governo israeliano, che da sempre controlla e limita a piacimento l’accesso alle risorse (…), dal 7 ottobre ha del tutto sospeso queste forniture essenziali. In questa scelta c’è una strategia precisa, una volontà deliberata di piegare la popolazione, usando la carestia artificialmente procurata come uno strumento di sterminio.

Le conseguenze di queste violenze non si limitano al corpo, ma investono anche la mente. I bambini palestinesi, sopravvissuti a questa violenza, portano dentro di loro ferite invisibili, profonde quanto e più di quelle fisiche. (…) Che idea di futuro si può formare nelle menti di una giovane generazione, quando tutto attorno a loro parla solo di morte e distruzione? “La guerra è brutta, e ha fatto diventare brutta anche me” ha detto una bambina di non più di nove anni – una bambina bellissima – alla giornalista palestinese Mariam Salama, a marzo 2024. “Prima ero molto più bella, il mio viso era più grande. La guerra ci ha reso tutti brutti”.»

Rula Jebreal, Genocidio.

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