Torniamo sulla Riforma costituzionale Nordio. E sarà giocoforza di qui al referendum ritornarci ancora. I cittadini saranno chiamati a decidere sull’assetto della giustizia, mica una cosina da poco!
Non è la prima volta che, varata una riforma costituzionale in Parlamento, viene richiesto il referendum confermativo da entrambe le parti, quella che ha voluto ed approvato il testo novellato e quella che vi si oppone frontalmente. Chi la vara cerca col ricorso al voto popolare il rafforzamento delle sue scelte; chi è contrario ne cerca la cancellazione.
Fu così ad esempio nel 2006, col referendum sulla Riforma promossa nel 2005 dal Governo Berlusconi. Sia la destra che l’aveva voluta sia l’opposizione chiesero il referendum. Che poi si tenne nel giugno di quell’anno e si chiuse con oltre il 60% dei NO e la riforma fu bocciata.
Anche oggi il voto referendario è richiesto sia dalla maggioranza che dall’opposizione. Entrambe sono convinte che il popolo stia dalla loro parte. Un popolo che, come sempre a fronte di un testo complesso, voterà per sentito dire o seguendo le indicazioni della propria parte politica. D’altronde non si può pretendere che quarantasei milioni di elettori siano tutti costituzionalisti o quanto meno in grado di analizzare un testo legislativo nel merito. Volenti o nolenti, dunque, il referendum avrà una connotazione politica.
Eppure uno sforzo di comprendere nel merito la riforma, senza lasciarsi travolgere dal clima di sfida all’ok corral, andrebbe fatto da parte di tutti i cittadini che si recheranno alle urne. Proviamoci.
La separazione delle carriere in sé non cambia nulla, di fatto essa già c’è. Non ci sono però oggi due CSM e un’Alta Corte Disciplinare (ACD) introdotti con la riforma. Chi voterà NO lo farà perché convinto che separati strutturalmente dai giudici, i piemme saranno assoggettati ai governi. A quello attuale in particolare. Questo però è solo un sospetto, o una fobia presa per una verità incontrovertibile. In punto di diritto, anche dopo la riforma, i piemme conserveranno la tutela costituzionale della loro autonomia dal potere esecutivo e da quello legislativo.
Il rischio non è tanto la subordinazione della magistratura requirente al potere esecutivo, quanto un altro, di natura culturale. Oggi i piemme vengono selezionati con pubblico concorso al termine di un percorso di formazione comune a quello dei giudici, con i quali condividono la partecipazione agli stessi organi istituzionali ed associativi nei quali si sviluppa la loro partecipazione al confronto giuridico. L’attuale piemme – al di là delle note e purtroppo frequenti manie di protagonismo di singoli magistrati – condivide con i giudici una cultura di base garantista.
Non trovano eco mediatica – e non devono né possono trovarla – eppure le procure italiane se ne cadono di richieste della polizia giudiziaria di turno a procedere ad arresti e a misure repressive frenate in primis dai piemme, che in assenza di indizi incontrovertibili procedono con grande cautela, a difesa dei cittadini sospettati. E d’altra parte la loro carriera, essendo determinata da un unico CSM di cui fanno parte sia giudici che magistrati requirenti, dipende in egual misura dalle condanne ottenute per i loro indagati e rinviati a giudizio e dalle archiviazioni richieste nei casi di cittadini accusati senza adeguate prove. Dopo la riforma, se essa sarà confermata dal voto referendario, il piemme diventerà una specie di superpoliziotto, un dirigente della polizia giudiziaria, la cui carriera sarà decisa da un CSM composto da soli piemme, con la stessa cultura, giocoforza interventista e giustizialista. Per essa conterà in maniera preponderante il numero delle persone portate alla sbarra. Non è detto perciò che la separazione delle carriere comporterà un vantaggio per i cittadini in termini di garanzie, come viene affermato dai sostenitori della riforma.
Ciò nondimeno non è la separazione delle carriere, presentata come il fulcro della riforma, il suo aspetto più inquietante.
Pensiamo al sorteggio dei membri dei due CSM e dell’Alta Corte Disciplinare. Mettiamoci nei panni di un magistrato. Ci sarebbe da offendersi. Può una categoria istituzionale così delicata essere tacciata di fatto di incapacità di intendere e volere? E già, perché se si dice che, qualora i magistrati scegliessero da sé i propri rappresentanti nei due CSM e nella ACD, metterebbero la magistratura nelle mani delle correnti colluse col potere politico, si sostiene che essi sono antropologicamente vocati al corporativismo e che per la democrazia il caso fortuito sia meno rischioso delle meditate scelte dei magistrati. Impossibile non dedurne che dietro questa riforma ci sia uno spirito punitivo, se non proprio vendicativo, nei confronti della magistratura, che si è permessa negli ultimi decenni di censurare le illegalità diffuse nelle prassi dei politici. Di tutti i politici, senza distinzione di casacca. Purtroppo!
Singolare, infine, la scelta di escludere il ricorso in Cassazione per i giudici o i piemme sanzionati dall’Alta Corte Disciplinare. Oggi il CSM, prima di deliberare una sanzione nei confronti di un magistrato, imbastisce un processo grosso modo analogo a quello penale. Al termine, se l’accusato viene ritenuto colpevole quindi sanzionato, può ricorrere alla Cassazione per vedersi riconosciuta la corretta condotta. Dopo la riforma, invece, il sanzionato ‘in primo grado’ potrà fare ricorso solo alla stessa ACD che lo ha riconosciuto colpevole, sia pure in diversa composizione.
Confessiamo che non sappiamo di altri casi nell’Occidente in cui un condannato convinto della sua innocenza venga costretto a ricorrere alla stessa corte che lo ha già condannato. Alla faccia della condizione di parità di fronte a un giudice terzo e imparziale. Potrà mai essere terza ed imparziale la stessa corte che ha condannato l’imputato in primo grado?
