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La Russia fuori la Russia

L’emigrazione russa degli anni Venti del Novecento

by Giulia Cioffi
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Oltre ai milioni di morti che la Grande guerra prima e le guerre civili poi avevano arrecato tra le fila russe, il paese fu scosso anche da un imponente flusso migratorio. Si contano, infatti, circa due milioni di migranti che in quegli anni lasciarono i territori dell’ex impero zarista a causa dell’instaurarsi del regime bolscevico, un numero così elevato da far parlare di una “Russia fuori la Russia”. Tra le fila di migranti si trovavano per la maggior parte i combattenti dell’ex esercito imperiale che, in seguito alle diverse sconfitte subite durante le guerre civili, avevano lasciato il paese salpando dai porti sul Mar Nero, attraversando la Polonia e i paesi baltici oppure la Manciuria verso oriente e la Cina.

L’esodo più rilevante delle truppe bianche si ebbe con la sconfitta in Crimea del generale Wrangel nel novembre del 1920, che segnò la fine della possibilità di rovesciare il governo rosso nell’immediato. Per scappare all’avanzata dell’Armata Rossa i soldati, seguiti da 50.000 civili, si diressero in un primo momento verso Costantinopoli, dove vennero poi trasferiti nel campo profughi di Gallipoli dai francesi che all’epoca occupavano la Turchia. È bene tener presente che le speranze dei russi di rovesciare il governo instauratosi erano ancora forti, almeno in un primo momento, inducendo Wrangel ad impegnarsi affinché si mantenesse un’organizzazione militare tra i soldati e si evitasse la dispersione delle forze, per poterle poi impiegare nuovamente nella guerra. È inoltre necessario sottolineare come le truppe, e più in generale tutti gli esuli, non si considerassero dei rifugiati, in quanto contavano di risiedere solo temporaneamente all’estero per poi fare ritorno nel proprio paese con la caduta del regime. È indicativo, infatti, come le prime mete dell’emigrazione fossero soprattutto i paesi dell’Europa orientale in prossimità della frontiera russa per facilitare il ritorno sperato. Le aspettative furono però presto deluse quando le altre potenze europee revocarono il proprio supporto alla causa bianca e dal 1923 iniziarono a riconoscere la legittimità del governo di Lenin.

La seconda ondata di migrazioni, che seguì le truppe bianche, coinvolse prevalentemente civili, di cui professionisti, membri della borghesia, intellettuali dell’intelligencija, impiegati dell’amministrazione imperiale e personalità vicine alla corte. La maggioranza consisteva quindi in oppositori politici ed esponenti delle classi sociali perseguitate dal progetto bolscevico. Inoltre, come accade nella maggioranza dei movimenti migratori seppure possa sembrar paradossale, i primi a lasciare il paese di provenienza sono coloro che ne hanno la disponibilità economica; questo fenomeno è evidente anche in questo caso se si considera l’estrazione sociale della componente migratoria. Infatti, la società russa che si venne a costituire all’estero presentava una percentuale di persone istruite e attive in ambito culturale e politico ben maggiore rispetto alla madrepatria.

Tale composizione sociale del fenomeno migratorio del 1919-1921 evidenzia qualcosa di unico e nuovo dei fenomeni migratori cui si assistette in quegli anni. I migranti non lasciavano il proprio paese per ricercare migliori condizioni di vita all’estero, come accade nella maggior parte dei processi migratori, ma per fuggire ad un sistema politico dal quale non si sentivano rappresentati e che contavano di rovesciare con l’aiuto delle potenze europee. Migrare per motivi politici, in particolare per la repressione del dissenso, è sicuramente tra i motivi più diffusi che spingono le persone ad abbandonare le proprie case, ma raramente accade che i profughi continuino ad impegnarsi per incidere sulla vita pubblica del paese da cui fuggono. Questo è invece quanto accadde nel caso preso in esame, ed è infatti indicativo come i diversi movimenti che caratterizzavano la scena politica prima della rivoluzione di ottobre sopravvissero anche in esilio. Anche i temi che erano stati al centro del dibattito, fin dalla prima rivoluzione, restarono immutati e continuarono a creare tensioni tra gli esuli; Socialisti Rivoluzionari, Menscevichi, Cadetti e i Nazionalisti Panrussi dissentivano sulla forma di governo che avrebbe dovuto sostituire quella comunista, non riuscendo così a coalizzarsi in una forza capace di esercitare un’effettiva pressione sul regime bolscevico.

Il dibattito politico che un tempo caratterizzava i territori zaristi, si spostò infatti anche nelle maggiori città mete delle migrazioni; Berlino, Praga e soprattutto Parigi divennero i maggiori poli di attrazione, anche per la riluttanza dei rifugiati a trasferirsi oltreoceano per restare nei pressi della frontiera russa nell’ottica di un eventuale ritorno. È quindi in queste sedi che i rifugiati diedero vita a scuole, università, luoghi di culto, giornali ed eventi culturali, lavorando anche sull’interazione tra le diverse comunità di esuli dislocate nel continente.

L’emigrazione russa degli anni Venti del Novecento non costituì un fattore decisivo solo per la storia del paese, ma ebbe ripercussioni soprattutto a livello internazionale. A causa della dislocazione in molti e vari paesi europei degli esuli russi, infatti, si delineò la necessità di ragionare sulla questione dello status di “rifugiato”, sui diritti propri della categoria e i doveri dei singoli stati nei suoi confronti in termini internazionali. Nel febbraio 1921, infatti, la Società delle Nazioni fronteggiò il problema istituendo un Alto Commissariato per i rifugiati (l’antenato del contemporaneo UNHCR) al cui vertice fu posto il norvegese Fridtjof Nansen. La situazione in cui verteva la società russa in esilio era però particolarmente delicata a causa di due problematiche: la difficoltà di riconoscere dei cittadini di uno Stato di cui gli stessi rifiutano l’esistenza, e il decreto emanato dall’Unione Sovietica nel dicembre 1921 che privava gli esuli russi del diritto alla cittadinanza trasformandoli in apolidi. La soluzione che venne adottata con l’Accordo del 4 luglio 1922 fu la seconda, e passò alla storia come “Passaporto Nansen”, prendendo il nome dal suo ideatore.

L’elemento caratterizzante, quindi, di quel fenomeno migratorio novecentesco va ricercato nelle strade di Parigi, nei caffè di Berlino o nei circoli di Praga, dove gli esuli continuarono a scrivere, a discutere e a sognare la Russia che avevano lasciato, trasformando l’esilio in una forma di resistenza culturale e politica. In quella “Russia fuori dalla Russia” sopravvissero la lingua, la letteratura e l’identità di un popolo che, pur disperso, non cessò mai di interrogarsi su sé stesso e sul proprio destino. Quando poi l’Europa fu travolta da una nuova guerra, molti di quei russi in esilio, nonostante gli anni di lontananza, non vennero meno alla difesa della loro patria d’origine, riconoscendosi ancora una volta parte della sua storia e del suo dolore.

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