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LE CITAZIONI: Achmatova. Requiem-Epilogo

Anna Achmatova

by Ernesto Scelza
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È questo l’Epilogo, del marzo 1940, di ‘Requiem’, il poema in dieci canti (più i versi della Dedica dell’Introduzione e dell’Epilogo) citato dalla raccolta ‘Poema senza eroe’ per la cura e la traduzione di Carlo Riccio. Il riferimento è al periodo del terrore in Unione sovietica sotto l’imperversare del capo della NKVD (il Commissariato del popolo per gli affari interni), Nikolaj Ežov, durante il quale il figlio della poeta, Lev Gumilëv, è arrestato nel 1938 e condannato a prigionia e lavori forzati per ‘attività controrivoluzionarie’: “a sorridere / Era solo chi è morto – lieto della pace”. “La lirica achmatoviana di questi ultimi decenni, anche se voce solitaria e discorde, anche se sembra andar dietro ai fantasmi del proprio passato o alle angosce della sua personale esistenza, così permeata com’è del senso della storia, dell’urto con la storia, è parte integrante della poesia della Russia sovietica e fuori di quel contesto vitale sarebbe impensabile” (Carlo Riccio).

 

I

Ho appreso come s’infossino i volti,

Come di sotto alle palpebre s’affacci la paura,

Come dure pagine di scrittura cuneiforme

Il dolore tracci sulle guance,

Come i riccioli da cinerei e neri

D’un tratto si facciano d’argento,

Il sorriso appassisca sulle labbra rassegnate,

E in un ghigno arido tremi lo spavento.

E non per me sola prego,

Ma per tutti coloro che erano con me, laggiù,

Nel freddo spietato, nell’afa di luglio,

Sotto la rossa muraglia abbacinata.

II

S’è di nuovo avvicinata l’ora del suffragio.

Vi vedo, vi ascolto, vi sento:

E colei che fu a stento condotta allo spioncino,

E colei che non calpesta il suolo natale,

E colei che, scrollando la bella testa,

Disse: “Qui vengo, come a casa”.

Avrei voluto chiamare tutte per nome,

Ma hanno portato via l’elenco, e non so come fare.

Per loro ho intessuto un’ampia coltre

Di povere parole, che ho inteso da loro.

Di loro mi rammento sempre e in ogni dove,

Di loro neppure in una nuova disgrazia mi scorderò,

E se mi chiuderanno la bocca tormentata

Con cui grida un popolo di cento milioni,

Che esse mi commemorino allo stesso modo

Alla vigilia del mio giorno di suffragio.

E se un giorno in questo paese

Pensassero di erigermi un monumento,

Acconsento ad esser celebrata,

Ma solo a condizione di non porlo

Né accanto al mare dov’io nacqui:

Col mare l’ultimo legame è reciso,

Né nel giardino dello zar presso il desiato ceppo,

Dove l’ombra sconsolata mi cerca,

Ma qui, dove stetti per trecento ore

E dove non mi aprirono il chiavistello.

Perché anche nella beata morte temo

Di dimenticare lo strepito delle nere “marusi”,

Di dimenticare come sbatteva l’odiosa porta

E una vecchia ululava da bestia ferita.

E che dalle immobili palpebre di bronzo

Come lagrime fluisca la neve disciolta

E il colombo del carcere che tubi di lontano,

E placide per la Neva vadano le navi.

Requiem. Epilogo (trad. Carlo Riccio)

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