Si cita qui dal primo capitolo (‘Cosa sia il tiranno’) del primo libro della celebre opera di Vittorio Alfieri del 1777, che si apre con una dedica alla ‘Libertà’: “Soglionsi per lo più i libri dedicare alle persone potenti, perché gli autori credono ritrarne chi lustro, chi protezione, chi mercede. Non sono, o Divina Libertà, spente affatto in tutti i moderni cuori le tue cocenti faville: molti nei loro scritti vanno or qua or là tasteggiando alcuni dei tuoi più sacri e più infranti diritti… Io, che in tal guisa scrivere non disdegno; io, che per nessun’altra cagione scriveva, se non perché i tristi miei tempi mi vietavano di fare; io, che ad ogni vera incalzante necessità, abbandonerei tuttavia la penna per impugnare sotto il tuo nobile vessillo la spada; ardisco io a te sola dedicar questi fogli”.
«‘Tiranno’ era il nome con cui i Greci chiamavano coloro che appelliamo noi re. E quanti, o per forza, o per frode, o per volontà pur anche del popolo o dei grandi, ottenevano le redini assolute del governo, e maggiori (‘al di sopra’, ndr) si credevano ed erano delle leggi, tutti indistintamente o re o tiranni venivano appellati dagli antichi.
Divenne un tal nome, coll’andare del tempo, esecrabile; e tale necessariamente farsi doveva. Quindi ai tempi nostri, quei principi stessi che la tirannide esercitano, gravemente pure si offendono di essere nominati tiranni. Questa siffatta confusione dei nomi e delle idee, ha posto una tale differenza tra noi e gli antichi, che presso loro un Tito, un Trajano, o qual altro più raro principe vi sia stato mai, poteva benissimo esser chiamato tiranno; e così presso noi, un Nerone, un Tiberio, un Filippo secondo, un Arrigo ottavo, o qual altro mostro moderno siasi agguagliato mai agli antichi, potrebbe essere appellato legittimo principe, o re. E tanta è la cecità del moderno ignorantissimo volgo, con tanta facilità si lascia egli ingannare dai semplici nomi, che sotto altro titolo egli si va godendo i tiranni, e compiange gli antichi popoli che a sopportare gli avevano.
Tra le moderne nazioni non si dà dunque il titolo di tiranno, se non se (sommessamente e tremando) a quei soli principi, che tolgono senza formalità nessuna ai lor sudditi le vite, gli averi, e l’onore. Re all’incontro, o principi, si chiamano quelli, che di codeste cose tutte potendo pure ad arbitrio loro disporre, ai sudditi non dimanco le lasciano; o non le tolgono almeno, che sotto un qualche velo di apparente giustizia. E benigni, e giusti re si estimano questi, perché, potendo essi ogni altrui cosa rapire con piena impunità, a dono si ascrive tutto ciò che essi non pigliano.
Questa semplice e necessaria distinzione universalmente ammessa in Europa, verrebbe ad essere la prima aurora di una rinascente libertà. È il vero, che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e perpetua; e che (come già il dissero tanti savj) la libertà pendendo tuttora in licenza, degenera alla fine in servaggio; come il regnare di uno solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà. Ma siccome per quanto io stenda in Europa lo sguardo, quasi in ogni sua contrada rimiro visi di schiavi; siccome non può oramai la universale oppressione più ascendere, ancorché la non mai fissabile ruota delle umane cose appaia ora immobile starsi in favore dei tiranni, ogni uomo buono dee credere, e sperare, che non sia oramai molto lontana quella necessaria vicenda, per cui sottentrare al fin debba all’universale servaggio una quasi universal libertà.»
Vittorio Alfieri, Della tirannide.