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In occasione del centocinquantenario della nascita di Benedetto Croce, nel 2016, Giuseppe Galasso appronta, per la lettura di Toni Servillo al Teatro Bellini di Napoli, una “un’antologia capace di farci vivere dall’interno l’ininterrotto dialogo che Croce ha intrattenuto con sé stesso e di svelarci così le ragioni profonde di un’attività tanto prodigiosa”. Questi brevi scritti crociani verranno riproposti dalla casa editrice Adelphi in un agile volumetto che presenta lo stesso titolo brano citato: ‘Soliloquio’. Il testo era stato pubblicato il 25 febbraio 1951 su ‘Il Giornale’ di Napoli, ed è “una delle pagine crociane giustamente più famose. La sua filosofia di vita, il suo sempre moralmente orientato sentire e una nota di napoletana saggezza vi sono espressi con una nitidezza di eloquio e di forma del tutto rispondente all’ideale crociano” (Pietro Craveri). In precedenza era apparso in ‘Terze pagine sparse’, raccolte e ordinate dallo stesso Croce per le edizioni Laterza.
«Qualche volta, agli amici che mi rivolgono la consueta domanda: “Come state?” rispondo con le parole che Salvatore di Giacomo udì dal vecchio duca di Maddaloni, il famoso epigrammista napoletano, quando, in una delle sue ultime visite, lo trovò che si scaldava al sole e gli rispose in dialetto: “Non lo vedi? Sto morendo”. Ma non è già un lamento che mi esca dal petto, ed è invece una delle solite reminiscenze di aneddoti letterarî che mi tornano curiosamente alla memoria e mi allegrano. Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nella carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale che egli come individuo possiede solo nei confini della sua individualità, a cui è assegnato un compito che si esaurisce.
Ma altri crede che in un tempo della vita questo pensiero della morte debba regolare quel che rimane della vita, che diventa così una preparazione alla morte. Ora, la vita intera è preparazione alla morte, e non c’è da fare altro sino alla fine che continuarla, attendendo con zelo e devozione a tutti i doveri che ci spettano. La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido essa non ci può trovare.
Vero è che questa preparazione della morte è intesa da taluni come un necessario raccoglimento della nostra anima in Dio; ma anche qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario ora accade che c’imponga una pratica inconsueta. Le anime pie di solito non la pensano così, e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l’ordinario egoismo della loro vita precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo.»
Benedetto Croce, Soliloquio.