Euripide presenta al pubblico ‘Le Troiane’, nel 415 a.C., mentre infuria la Guerra del Peloponneso. Lo spirito degli Ateniesi è turbato per la ferocia dei combattenti, ed Euripide, probabilmente, è impressionato dalle stragi compiute dai suoi concittadini nell’assedio e nella conquista di Melo, avvenuta nell’inverno dell’anno 416-415. “Folle chi rade al suolo le città, e i templi e le tombe ne abbandona, sacro asilo dei morti: presto o tardi pagherà molto care le sue colpe”. Ecuba, la vecchia regina destinata, dopo l’uccisione dei figli e la tratta in schiavitù delle figlie, a servire Odìsseo, accoglie le spoglie di Astianatte, il figlio di Ettore, precipitato dalla rocca dai Greci, per timore che un giorno potesse vendicarsi del padre e della distruzione di Troia: “Qui riposa un fanciullo cui gli Argivi diedero un giorno morte per paura!”
Ecuba:
Al suol ponete dello scudo d’Ettore
l’orbe: lugubre vista agli occhi miei,
e men che grata. O Achei, per l’armi insigni
piú che pel senno, e che mai temevate,
che con novello scempio avete ucciso
questo fanciullo? Ch’ei Troia abbattuta
risollevasse un dí? Nulla eravate,
dunque, allorché pugnava Ettore, e seco
mille e mille altre schiere, ed anche noi
sopraffatti eravamo? E adesso, che
Troia è caduta, e sterminati i Frigi,
d’un fanciullo temete? Il terror, quando
invade i cuor senza ragione, io biasimo. –
Deh, quanto sciagurata, o dilettissimo,
fu la tua morte! Se caduto fossi
per la patria pugnando, o già godute
la gioventù, le nozze avessi, o il regno
che l’uom pari agli Dei rende, felice
ti chiamerei, se pur felicità
in tali cose esiste. Or tu, nessuna
di queste cose sai, né di scienza,
figlio mio, né di prova: il bene in casa
avevi, e nulla pur tu ne godesti.
Come, infelice, le paterne mura,
opra di Febo, dal tuo capo i riccioli
hanno estirpati! Li educò la madre,
di baci li copriva: adesso ride
dall’ossa infrante il sangue: io dir non voglio
parole orrende! O mani, in cui soave
delle mani paterne è ancor l’impronta,
come dinanzi a me giace la vostra
compagine distrutta! O caro labbro,
che tanti e tanti puerili canti
pronunciavi, or sei spento! E tu mentivi
quando, saltando sul mio letto: “O madre –
dicevi – un lungo ricciolo per te
reciderò delle mie chiome, e schiere
guiderò di compagni al tuo sepolcro,
dolci saluti a te rivolgerò”.
Ed or, non a me tu, ma io, vegliarda
senza patria né figli, a te fanciullo
darò sepolcro, al tuo misero corpo.
Ahi son finiti i tanti baci, e i giorni
ch’io ti nutrivo, i tuoi sonni vegliavo.
Un poeta che mai scriver potrebbe
sulla tua tomba? “Uccisero gli Argivi
questo fanciullo, per la paura”.
Euripide, Le Troiane.