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LE CITAZIONI: Galimberti. Vizi privati e pubbliche virtù

Umberto Galimberti

by Ernesto Scelza
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Queste considerazioni del filosofo e psicologo analitico Umberto Galimberti sono contenute in un intervento dicembre 2002 che prende spunto da un classico della letteratura satirica del primo Settecento: ‘La Favola delle api’ di Bernard de Mandeville, oriundo francese, nato in Olanda e trasferitosi in Inghilterra dopo la laurea in medicina nel 1691. Il poemetto è pubblicato in forma anonima nel 1705, e ristampato nel 1714 con l’aggiunta di un fortunato sottotitolo: ‘Vizi privati e pubbliche virtù’. Galimberti nel suo intervento vi appone delle ‘ Riflessioni storiche, economiche e morali su un’idea settecentesca’: “C’è molta attualità in questa favola che, per frivola che possa apparire, pone un problema. Come conciliare la cultura cristiana che… tutti individuano come forma dell’Occidente, con il livello di ricchezza e abbondanza raggiunto dalle società occidentali? Come conciliare l’‘etica della mortificazione’, che il cristianesimo ci ha insegnato in tutta la sua storia… con l’opulenza offertaci dalla produzione e dal consumo dei beni, dove la soddisfazione dei bisogni (e non la loro mortificazione) è un fattore economico, e dove la soddisfazione dei vizi è il secondo fattore dopo che i bisogni sono stati soddisfatti?”. 

 

«Quante volte abbiamo letto che un’epoca storica si dissolve per ‘corruzione dei costumi’. Così finì I’lmpero romano, così finì il Medioevo nel secolo in cui Lorenzo Valla definiva “gaiezza del vivere” quanto nel Medioevo era indicato come “peccato”; così finì ’Età moderna nella corruzione del primo e del secondo Stato (nobiltà e clero); così prese avvio l’ascetico Ottocento retto dalla morale del marxismo (ultima riedizione del cristianesimo) e della scienza, i cui metodi severi e rigorosi impongono discipline non più tenui delle discipline monacali. Oggi si riprende a parlare di ‘basso impero’ e si trae spunto per questo, ancora una volta, dal rilassamento dei costumi.

Per ‘costumi’ bisogna intendere proprio le vesti, quelle che gli uomini civili indossano a differenza del ‘nudo selvaggio’.

(…) I vizi capitali fanno la loro prima vaga comparsa in Aristotele che li qualifica “abiti del male”. Essi, al pari delle virtù, derivano dalla ripetizione di azioni che, iterate, formano nel soggetto un ‘abito’ o, come dice Aristotele nell’Etica a Nicomaco, una “seconda natura”, che inclina l’individuo in una certa direzione. Di qui l’importanza dell’educazione, il cui scopo è di allenare il giovane all’acquisizione di abiti buoni.

Nel Medioevo questi vizi non sono più letti come abiti contratti da cattive abitudini, ma come un’opposizione della volontà dell’uomo alla volontà di Dio. Ce ne parla Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae, dove questi vizi sono elencati nella successione che noi oggi conosciamo.

Nell’Età dei lumi la differenza tra vizi e virtù perde rilevanza perché, al pari delle virtù, anche i vizi, come ci ha

dimostrato Mandeville, concorrono allo sviluppo dell’industria, del commercio e del benessere sociale. Dopo la lezione illuminista, i vizi capitali, anche se non in modo sistematico, compaiono nella Metafisica dei costumi di Kant e soprattutto nella sua Antropologia pragmatica dove, accanto alla segnalazione della deviazione morale, si fa strada una lettura nuova, che vede nel vizio un’espressione della tipologia umana o, come dice Kant, di una “caratteriologia” (l’avaro, il superbo, il goloso, l’iroso, l’accidioso, l’invidioso, il lussurioso).

(…) I nuovi vizi, a differenza dei vizi capitali, non hanno storia appunto perché sono ‘nuovi’: o nel senso che prima non c’erano, o nel senso che non erano di dimensioni tali da costituire un tratto evidente e facilmente riconoscibile del nostro modo di vivere (…).

A differenza dei vizi capitali che segnalano una ‘deviazione’ o, a seconda della tolleranza dei tempi, una ‘caratteristica’ della personalità, i nuovi vizi ne segnalano il ‘dissolvimento’, che tra l’altro non è neppure avvertito, perché investe indiscriminatamente tutti. I nuovi vizi, infatti, non sono ‘personali’ ma ‘tendenze collettive, a cui l’individuo non può opporre un’efficace resistenza individuale, pena l’esclusione sociale. E allora perché parlarne?»

Umberto Galimberti, La Favola delle api. Ovvero: Vizi privati e pubblici benefici.

 

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