Così il poeta Alfonso Gatto riporta in una nota alla lunga poesia ‘In ricordo di Hiroshima’, nella seconda parte della raccolta ‘La storia delle vittime’ del 1966: “Il sei agosto I945 gli americani lasciarono cadere la prima bomba atomica su Hiroshima. Questa mia lunga poesia, elaborata tutti i giorni dall’agosto 1965 a oggi, trae o cerca di trarre le prime domande all’ammonimento terroristico ch’è sospeso su noi, dà la prima risposta: questa del nostro continuare a volere giustizia, indipendenza, libertà, anche a costo della sventura, pur di dare ai ‘mezzi’ del potere, ormai venerati e temuti per sé stessi, un fine nella scelta dell’uomo per una nuova storia, anch’essa aperta da decine e decine di migliaia di vittime. Di esse, nella poesia, una fanciulla propone ‘l’ululo fuggente’ che non lascia memorie, ma solo il contagio, i lèmuri e i gechi della vita scomparsa, l’orrore di una genesi invertita che dall’uomo discende ai mostri”.
Era un giorno del tempo, un mattino d’estate
e ventilava il mare aperto il suo rigoglio.
Diranno ancora “amate” i poeti di corte
e la fede che prospera più cieca dell’orgoglio?
Quel giorno a Hiroshima fu decisa la morte.
Ora, se parla l’uomo, quale voce credente
sarà la sua nel chiedere la fede che spergiura?
Quel giorno a Hiroshima il tutto s’ebbe il niente
del suo potere, l’empio fu mai così pietoso.
Perché nascondi il volto in un volto ch’è roso
dalla sua lebbra ardente? Ogni attimo minaccia
la grazia ch’ebbe il soffio del suo fango mortale.
Quel giorno a Hiroshima si rovesciò la faccia
dell’uomo atroce risguardo del suo male,
fu l’essiccata effigie dell’occhio che rintraccia
la tenebra perenne, addentro nel fulgore
d’un punto che vacilla ed è la sua pupilla.
Un ordine la mano che fissa il suo potere,
ma la voce era d’uomo che annienta le parole
per non udirle, e aspetta: rigurgita il cratere
di povere festuche umane che ogni fuoco
bastava a incenerire, il fuoco che riscalda
il gelo e la miseria degli ànditi di carta,
il tizzo del bambino che soffia sul suo gioco.
Forse i morti non seppero s’era caduto il sole.
Quell’attimo d’un solo grido taciuto anch’esso,
quell’attimo, la mira del fulmine che scarta
nel sibilo la luce e ne dirompe l’iride.
L’abbaglio ammonitore è ermo nella salda
tenacia del ricordo: s’illumini il regresso
dell’uomo al suo patire, con le sue mani livide
la fredda guerra ci offra un obolo di pace.
Passo su passo apprende che è sua la morte, l’uomo
avviato a riceverla. Quello che vede e ascolta
gli è proprio, l’avvenenza d’avere in sé rivolta
per luce la sua faccia, ed il cammino, il verde
dei prati avrà memoria nel tempo, in ogni luogo.
Lascia cadendo un segno. Leggenda o storia, il rogo
dell’aria esalta innalza la vittima che perde.
Ma Hiroshima è l’arido sepolcro d’una culla,
la cenere d’un mondo che non dice più nulla
La vittima non trova il volto da passare
al tempo che gli porti la memoria dei suoi giorni
e la speranza, il credere per essere creduto.
L’abbaglio ammonitore è fisso in quel che appare,
è la notizia, il nuovo colpito dal suo segno,
il buco che s’allarga bruciando dai contorni
come un’orbita vuota: la storia è l’accaduto
che non dà voce e favole, che non tramanda un pegno
silente nella memoria…
Ma dov’è la fanciulla
discesa al suo giardino movendo dai tranquilli
passi lo sguardo intorno? Trafitta dagli spilli
dell’iride sublime rifulse l’evento
della sua luce, fusa. Non ebbe il suo momento,
all’attimo fu tolta, tentò l’assurdo plagio
di somigliarsi, piaga devota al suo contagio.
Non sarà più fanciulla, nemmeno il nostro amore
può ricordarla umana, distinguerle nel volto
mucoso gli occhi ciechi che videro quel nulla.
Ma dov’è la vittoria che annunci al vincitore
quest’ibrido raccolto di lemuri e di gechi?
E non sarà la morte chi non è più l’amore,
ma il suo fantasma, l’empio ludibrio che s’addìta.
Per essere d’esempio all’ultimo terrore
che la sua mano suscita, per piangere più forte
del pianto, del suo pianto, la vittima è sola
speranza che non mente. Non è pietà, parola
dell’anima tradita. E’ la sua carne sola,
un ululo fuggente…
Ma l’uomo atteso a cedere il suo dolore antico,
a dirsi vinto e inerme, ha il volto del nemico
che logora il suo paziente e che non cede.
Ha l’arma della soma che porta e che misura
il suo passo dolente, il padre da chiamare
e se stesso nel figlio, la traccia del suo piede.
E’ l’uomo che si esaspera tacendo con la pura
tristezza dello sguardo e che vi aspetta al fare.
Fatelo dunque il male, credetegli, spendete
la moneta sonante del rogo d’Hiroshima.
Ogni assetato resta a chiedere la sete,
sull’ultima parola ritornerà la prima
che avvenne nel chiamarci. Fatelo tutto il male,
credetegli, spendete la sua scienza beffarda.
La morte più non basta, demente irrisa guarda
la genesi una bianca eternità di sale.
Sei agosto.