Con questo articolo apparso nel numero dell’11 gennaio 1923 de ‘La Rivoluzione liberale’, Piero Gobetti sottolinea i caratteri del suo ‘liberalismo democratico’ di contro alle contraddizioni della politica e dell’agire pratico dei democratici suoi contemporanei, che oggi diremmo viziati da eccessivo ‘populismo’. Considerazioni, queste del giovane Gobetti, che lo avvicinano alle sferzanti considerazione sui limiti dei politicanti socialisti e liberali del suo tempo espresse negli stessi anni da Antonio Gramsci. Nel testo è inserita una nota assai acuta sul voto come diritto/dovere.
«Che cosa deve intendersi per democrazia. Se democrazia significa soltanto governo eletto dal popolo allora si che ogni liberale è democratico. Nei governi rappresentativi a largo suffragio si può dire che la parte più preparata o meno impreparata del popolo concorre alla scelta dei governanti: e non v’è liberale che si proponga di togliere il voto a quelli che l’hanno, o che si rifiuti di estenderlo gradatamente a quelli che lo meriteranno.
Considerare il voto politico come un diritto che include un dovere è l’idea più allegramente antiliberale e teocratica che si possa fantasticare. Il voto è una premessa, una pregiudiziale necessaria della personalità: è una condizione oggettiva da cui ogni considerazione di bene o di male viene esclusa. Non si tratta di diritto al voto: votando si compie una funzione che vorrei dire fisiologica (almeno nel senso in cui è anche un fatto fisiologico il pensare): si potrà discorrere poi dei risultati, ma in nessun modo mettere in discussione gli antecedenti necessari, come sarebbe ridicolo fantasticare di togliere il diritto al pensiero a chi pensa male. Votar male (pensar male) per il fatto stesso che si vota (si pensa) è già un bene. Il voto anche per chi non sia un fanatico dell’illuminismo è veramente l’atto fisico di nascita della persona politica.
Ma vi è nel cuore del democratico un ossequio alla folla, un’ammirazione pel numero, un’aspirazione all’uguaglianza di fatto, oltre che di diritto, fra gli uomini; i quali sentimenti fanno si che in molti problemi il liberale e il democratico non potranno andare d’accordo (…).
Se poi abbandoniamo il candido e puro democratico il rispettabile campione della sana democrazia, e ci avviciniamo al politicante democratico, – che molti di noi, negli ultimi anni, ebbero campo di vedere all’opera – allora il giudizio peggiora. La democrazia dei politicanti io me la raffiguro come un corpo a due teste, che si volgono a due pubblici opposti. Le due facce della democrazia sembrano indipendenti: l’una sorride alla Reggia, l’altra alla piazza; l’una difende le istituzioni l’altra grida ai nemici dello Stato: “Lo Stato è la casa di tutti”. Le labbra di destra esclamano “l’esercito deve tutelar l’ordine”, ma le labbra di sinistra mormorano: “il popolo è sovrano e deve poter disselciare le strade per tirare i ciottoli sui soldati immobili”. Una bocca ammonisce, “salviamo il bilancio”, l’altra sussurra: “sussidiamo le cooperative e sistemiamo i buoni elettori” (…).
Il politicante democratico è sempre disposto ad adular la folla, è sempre pronto a conciliare e capitolare, e scendendo di scalino in scalino annulla le gerarchie, e inebriandosi del plauso delle moltitudini allontana la soluzione dei problemi scabrosi e prepara il fallimento dello Stato.»
Piero Gobetti, Liberismo e democrazia.