Nel luglio del 1902, Jack London “ha ventisei anni, una moglie, una figlia piccola, un’altra in arrivo; riviste e giornali hanno cominciato a pubblicare suoi scritti… Si è lasciato dietro la lotta per uscire dalla miseria” ed è in procinto di “recarsi in Sudafrica dove si è appena conclusa la sanguinosa guerra anglo-boera, per intervistarvi i protagonisti politici e militari e scrivere sulla situazione sociale nel paese”. Ma prima decide di fermarsi a Londra e raccogliere materiali sull’East End, vasto slum proletario e immigrato, per trarne un libro. Ne seguirà “Il popolo dell’abisso”, un libro “traboccante di passione e indignazione, una messa sotto accusa, diretta e senza mezzi termini, del meccanismo economico e sociale che produce tanta miseria e disperazione nel cuore di quello che era ancora il più grande impero del mondo”. Questa citata ne è la “Premessa”.
«Le esperienze narrate… risalgono all’estate del 1902, quando decisi di avventurarmi nei bassifondi londinesi con un atteggiamento mentale molto simile a quello dell’esploratore che si addentri in terre ignote: ero pronto cioè a lasciarmi convincere da quanto i miei occhi avrebbero visto, piuttosto che dalle lezioni e dalle opinioni di chi aveva sì visto, ma poi aveva tirato dritto (…).
Il lettore si accorgerà ben presto che molto di quanto io vidi fu negativo; ma dovrà anche tenere a mente che il periodo in cui queste avventure ebbero luogo veniva considerato, in Inghilterra, un “buon periodo”, una “fase di benessere”: il che equivale a dire che lo stato di prostrazione materiale da me riscontrato negli individui e la diffusa, devastante carenza di alloggi costituivano una condizione di miseria normale, cronica, che nemmeno i periodi di maggiore prosperità riescono a cancellare.
A quell’estate subentrò poi un inverno molto rigido, e a migliaia i disoccupati scesero per le strade di Londra, formando ogni giorno dieci, dodici cortei alla volta e invocando qualcosa da mangiare. Justin McCarthy così riassumeva la situazione nel gennaio 1903, per le pagine dell’“Independent” di New York:
“I ricoveri sono ormai insufficienti a ospitare la folla affamata che notte e giorno s’accalca davanti ai loro cancelli in fiduciosa attesa di cibo e alloggio. Gli istituti di carità si sono letteralmente dissanguati nel tentativo di raccogliere alimenti e vestiario per le migliaia di disgraziati che muoiono di fame e di freddo nelle cantine e nei seminterrati, nelle soffitte e nei sottotetti dei vicoli, degli angiporti, delle strade più misere e squallide di Londra. Di notte, le sedi dell’Esercito della Salvezza in vari quartieri della città vengono assediate da torme di disoccupati e affamati, ai quali non si riesce ad assicurare né un tetto né i più elementari mezzi di sussistenza”.
Qualcuno ha affermato che le mie critiche alla situazione inglese sono viziate da un eccesso di pessimismo. Sarà dunque bene che io ricordi al lettore che sono in realtà il più ottimista degli ottimisti. Ma sono anche solito misurare l’umanità più sul metro dell’individuo che su quello delle aggregazioni politiche: la società cresce e si sviluppa, gli apparati politici si sgretolano e divengono semplici rottami di nessuna utilità. Vedo un futuro radioso per il popolo inglese, per i suoi uomini e le sue donne, per ciò che riguarda la loro salute, la loro felicità, le loro condizioni di vita.
Ma per gran parte della macchina politica che è responsabile davanti a loro di una così cattiva direzione e amministrazione, vedo solo il mucchio degli scarti e dei rottami.»
Jack London, Il popolo dell’abisso (trad. Mario Maffi).