Il saggio di Claudio Magris è una raccolta di brevi appunti di viaggio, memorie dell’autore vissute nel periodo tra il 1981 ed il 2004. Riflette sul senso del ‘viaggiare’ ribaltando il concetto di viaggio percepito come ‘fuga’ dalla realtà, e suggerendo che il viaggio è un atto di esistenza stesso: “Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti, sono la premessa dell’incontro, della seduzione e dell’avventura; la ventesima o centesima volta in cui si parla con un amico o si fa all’amore con una persona amata sono infinitamente più intense della prima. Ciò vale pure per i luoghi; il viaggio più affascinante è un ritorno”.
«È sulle rive del mare “inesplicabile”, come lo chiamava Camões, che s’incontra il respiro largo della vita, che apre alle grandi domande sul destino e al senso del bene e del male; il mare pone a confronto con l’ambiguità, invita a sfidarla – sul mare immortale, scrive Conrad, si conquista il perdono delle proprie anime peccatrici. Al mare ci si spoglia, ci si toglie le soffocanti difese e ci si apre a ciò che sta davanti. Anche questa è la salvezza del viaggiatore, il quale pure sul lastricato delle città o sulle montagne si sente sulla traballante tolda di una nave sbattuta dai marosi, arca precaria o salvifica.
Crudeltà del viaggio, ammonisce Canetti: il viaggiatore guarda al mondo con curiosità ed è in qualche modo propenso ad accettare ciò che vede, anche il male e l’ingiustizia, a conoscerli e a capirli piuttosto che a combatterli e a respingerli. Il viaggio nei paesi totalitari, ad esempio, è sempre un po’ colpevole, una complicità o almeno neutralità di fatto nei confronti delle violenze e delle infamie celate dietro i villaggi Potemkin che si attraversano e dove si trova ospitalità. Eppure, a poco a poco, il viaggiatore scopre, è costretto a scoprire la fraternità e il comune destino del mondo, a sentire che il mondo intero è la sua casa e che solo questo sentimento rende vero il suo amore per la casa lasciata al suo paese, che altrimenti sarebbe un orrido e regressivo feticismo.
Come per il vagabondo buonannulla di Eichendorff, amore delle lontananze e amore del focolare coincidono, perché in quel focolare si ama pure il vasto mondo sconosciuto e in quest’ultimo si coglie, anche nelle forme più diverse, l’intimità del focolare. Dante diceva che bevendo l’acqua dell’Arno aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ma che la nostra patria è il mondo come per i pesci il mare – ognuna delle due acque, da sola, è insufficiente e inquinata. Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio sono gli uomini; non si va in Spagna o in Germania, ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi. “Legga letteratura di viaggio” diceva a un teologo Kant, che pure non voleva muoversi da Königsberg.
Talvolta i luoghi parlano, talvolta tacciono, hanno le loro epifanie e le loro chiusure. Come ogni incontro, pure quello con i luoghi – e con chi ci vive – è avventuroso, ricco di promesse e di rischi. Alcuni luoghi, Venezia o Praga, parlano anche al viaggiatore più distratto e ignaro con l’evidenza stessa del loro apparire e della vita che vi si svolge (…). Altri luoghi si chiudono in un opaco segreto e l’incontro fallisce; pure il viaggio, come ogni avventura, è esposto alla sconfitta e all’aridità. Ciò avviene perché il viaggiatore – per ignoranza, per superbia, per accidia – non trova la chiave per entrare in quel mondo, il vocabolario e la grammatica per capire quella lingua e decifrare quella cultura. Lo status viatoris che il pensiero religioso attribuisce all’uomo implica pure questa fragilità, quest’alternanza di gloria e di caduta, la capacità di salvezza unita all’esposizione allo scacco e alla colpa.
Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente, riconoscere, è l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio.
Per vedere un luogo occorre rivederlo (…). “Perché cavalcate per queste terre?” chiede nella famosa ballata di Rilke l’alfiere al marchese che procede al suo fianco. “Per ritornare” risponde l’altro.»
Claudio Magris, L’infinito viaggiare.