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LE CITAZIONI: Ortese. Una miseria cieca

Anna Maria Ortese

by Ernesto Scelza
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“Alla fine del Settecento, a Londra, una ragazza di ventitré anni si macchiò di un grave reato, e fu immancabilmente punita… Anne viveva in una miseria cieca, infinita. Quella era la sua parte nel mondo. Un giorno, la sua mente, forse indebolita dal buio, cercò la salvezza. Era il denaro. Non lo aveva, s’ingegnò a fabbricarlo. Al processo, non si difese mai”: introduce così Anna Maria Ortese questo straordinario romanzo “fin dall’inizio dedicato a Anne”. E spiega: “La vecchia natura delle cose non mi andava. Inventai dunque una me stessa che voleva un’aggiunta al mondo, che gridava contro la pianificazione ottimale della vita. Che vedeva, nella normalità, solo menzogna… ‘Toledo’ non è dunque una storia vera, non è un’autobiografia, è rivolta e ‘reato’ davanti alla pianificazione umana, alla sola dimensione umana che ci è stata lasciata”.

 

«Sono figlia di nessuno. Nel senso che la società, quando io nacqui, non c’era, o non c’era per tutti i figli dell’uomo. E nascendo senza società o bontà io stessa, in certo senso non nacqui nemmeno, tutto ciò che vidi e seppi fu illusorio, come i sogni della notte che all’alba svaniscono, e così fu per quelli che mi stavano intorno. Non importa, così, dove nacqui, e come vissi fino agli anni tredici… So che un certo giorno mi guardai intorno, e vidi che anche il mondo nasceva; nascevano montagne, acque, nuvole, livide figure.

Il luogo dove questo accadeva era la città di un Borbone (…). Io nacqui dunque alla vita in questa strettoia: come popolo giallorosso, o figlia di popolo tale, mi trovavo sotto il peso di questo secolo che mi era, per natura, estraneo. Volevo dire la mia parola di popoluccio iberico, ma soffocavo (sotto questo secolo estraneo), e inoltre la lingua mancava, mancavano i mezzi più atti alla lingua: appunto, l’istruzione.

Mi feci coraggio, tuttavia; e di quella lingua raccogliticcia di un popolo dominato da un presente a esso estraneo, e da un futuro più estraneo ancora, mi feci la penna che era possibile farmi: un’asticciola colorata, tremante, villana e, nello stesso tempo, intinta come era nel buio presente, non poco vuota e cupa. Sì, mandava talora dei suoni cupi.

Detto il tempo, e il modo che mi servì a esprimermi, e nel quale mi espressi (…) restano alcune cose sui luoghi, e il luogo in particolare.

Questo era una catapecchia, sita al quinto piano di una casa del porto, nella città bassa, detta casa apasa, o marine. Vi si accedeva da scala interminabile. A destra una porta a vetri colorati, gialli e amaranto, menava in un andito buio, da questi vetri un po’ rischiarato. Da qui, ancora a destra, la casa finiva, mentre dal fondo si entrava in cucina, e a sinistra, movendo un’altra porticina, che era invece a vetri chiari, si entrava nello studio, o despacho. Questa casa era poi, quando ci entravate, una specie di rettangolo, era una doppia fila di stanze… Dalla prima, molto abbandonata, si entrava nella seconda, che era despacho, e da questa nella stanza degli Apo… La stanza subito a destra era la stanza d’Angolo, con due finestre, una sul Pilar (e l’orizzonte), l’altra sulla Rua Ahorcados. Accanto, era la stanza Rossa, stretta e lunga, che serviva da dormire e anche da mangiare, e ancora accanto a questa era la cucina. Abbuiata da un tramezzo, tale cucina, nella parte terminale, dov’era più luce, diventava gabinetto; conteneva poi ceste e tini. La vasca era rappresentata da una tinozza per il bucato. Sotto la finestra era il lavandino, e questa finestra dominava a destra il cinereo orizzonte di case lerce e buie, dominato a sua volta dalla Collina, dominata a sua volta dal Castello. E tutto questo paesaggio solo qualche volta lo vidi azzurro, di un intenso azzurro che straziava; per lo più era cinereo, era l’inverno.

Le nuvole, in quel tempo, coprivano quasi eternamente la nostra città infelice, grandi nuvole piene di pioggia e, la notte, bianche di luna.»

Anna Maria Ortese. Il porto di Toledo.

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