“Ogni guerra è anche una guerra di parole. Forse prima di tutto una guerra di parole, e non è un paradosso cinico. A proposito del famoso discorso di Winston Churchill all’indomani della ritirata inglese da Dunkirk (We shall fight on the beaches, We shall fight on the landing grounds…), Kennedy disse che con le sue parole Churchill aveva mobilitato la lingua inglese per mandarla in battaglia. La guerra di Gaza non fa eccezione, se si vuole chiamare guerra lo scontro asimmetrico tra un esercito regolare e una popolazione civile in balìa degli eventi”. Con queste parole, nello scorso novembre 2024, la semiologa Valentina Pisanty introduce il suo saggio. E nota che “Dopo i fatti del 7 ottobre 2023 il dibattito politico e culturale è ostaggio di una militarizzazione e di una grave confusione su cosa è antisemitismo, cosa è antisionismo e cosa non lo è”.
«Mentre spianano la strada alle destre in ascesa, gli usi strumentali della parola antisemita indeboliscono la posizione di chi si preoccupa per davvero della ripresa dell’antisemitismo nel contesto contemporaneo. A forza di ribadire che antisemitismo e antisionismo sono la stessa cosa, si finisce per togliere peso e gravità al primo dei due termini. Se, come vuole la nuova definizione, antisionismo è solo un altro modo per dire antisemitismo, allora si potrebbe pensare che non vi sia niente di male a essere antisemiti. Lo si è visto sui social nei lunghi mesi dell’assedio di Gaza. In alcuni casi, che non saprei quantificare, la parola ebreo ha ricominciato a essere impiegata come un epiteto, mentre antisemita si è parzialmente smarcata dalle sue connotazioni negative (“se antisemitismo significa stare dalla parte dei palestinesi, ebbene sì, sono antisemita”). Fin dove potrebbe spingersi questa deriva?
(…) Antisemitismo è puro pregiudizio razzista. Antisionismo è una posizione politica, e come tale si declina in tanti modi. Ci sono antisionisti anche nello Stato di Israele, vedi per esempio gli haredim che non lo riconoscono. Passano la vita a studiare la Bibbia: sono forse antisemiti? Certo, non tutti i discorsi antisionisti sono ragionevoli ed equilibrati. Alcuni sono motivati da considerazioni religiose: per gli ultraortodossi è blasfemo istituire uno Stato ebraico prima dell’arrivo del messia. Altri da una narrazione semplicistica del conflitto, come se le uniche parti in causa fossero gli israeliani e i palestinesi, senza tener conto del ruolo determinante di altri attori regionali e globali, e come se le leadership palestinesi, in quanto parti lese, fossero sollevate da ogni responsabilità. Vi è poi chi proietta su Israele colpe che esorbitano dalla sua storia, per esempio elevandolo a simbolo del colonialismo occidentale, come se non vi fossero differenze tra il colonialismo espansionistico delle nazioni europee e… l’esigenza di uno stato da parte di una minoranza perseguitata in quanto apolide.
(…) Si può privilegiare la prospettiva dei palestinesi senza per questo essere tacciati di pregiudizio antiebraico. Tanto più che la bilancia del potere militare, economico e politico pende decisamente a favore di Israele (…). Si possono denunciare i crimini israeliani, sorvolando su quelli di altri stati, senza che il doppio standard sia immediatamente ascritto a profonde pulsioni razziste. Si possono fare analisi discutibili, paragoni azzardati e affermazioni irragionevoli senza per questo scadere nella retorica antisemita (…). Della possibilità di discutere di cosa è o non è ragionevole è fatta la democrazia. E dato che il linguaggio è essenziale per prendere decisioni nel dibattito politico, non è tollerabile, in un contesto democratico, che una delle parole-chiave venga prelevata dal lessico, spogliata della sua funzione, rivestita di abiti nuovi, ed esibita al mondo come garanzia di impunità per chi intende affermare le sue ragioni di parte con la forza, whatever it takes (= ad ogni costo, ndr).
Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA (Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, ndr) deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando. A meno di non prendere atto che il mondo è entrato in una fase di guerra senza quartiere, o si vince o si muore, di cui la retorica della prevaricazione è il naturale corollario.»
Valentina Pisanty, Antisemita, una parola in ostaggio.