“In un’aula giudiziaria, una donna vestita di nero accusa il capomafia che ha fatto ammazzare suo marito e poi anche suo figlio: Loro sono venuti meno alla legge dell’onore, dichiara, e perciò anche io mi sento sciolta. Pur di vendicarli ha accettato di infrangere le regole cui si era sempre sottomessa – di rinunciare a vivere. Quella donna è Serafina Battaglia, testimone di giustizia nella Palermo dei primi anni Sessanta, devastata dai regolamenti di conti mafiosi”. Il testo citato è un soggetto cinematografico approntato dallo scrittore siciliano per il regista Carlo Lizzani.
«Palermo e la Conca d’oro dall’alto. I giardini, gli orti. Gli aranci carichi di frutta. Una paratia che si apre. Il getto d’acqua che ne sgorga impetuosamente avanza dentro un canale, dirama in altri canali più piccoli, sempre più piccoli, si compone in un lucido reticolo tra il verde dei giardini e degli orti. Ancora un albero d’arancio, splendidamente carico di frutti. Spari. Un uomo si abbatte ai piedi dell’albero.
Palazzine liberty che improvvisamente svaniscono per dar luogo a costruzioni nuove, più o meno orrende. Macchie di verde che scompaiono, enormi ficus, palme: e case nuove che sorgono al loro posto. Una casa in costruzione. Di spalle, un uomo che segue i lavori: l’appaltante, il padrone. Spari. L’uomo stramazza a faccia in giù, a lato di una impastatrice.
La “vucciria” (mercato palermitano, ndr), il brulichio dei venditori di sigarette di contrabbando. Un camion che presso una casa di campagna scarica grandi casse di cartone su cui si leggono le marche Chesterfield, Camel, Morris. Un uomo che assiste allo scarico. Spari. L’uomo crolla vicino al mucchio delle casse.
La teoria dei venditori di fiori davanti al teatro Massimo. Negozi di fiori, vetrine fitte di fiori. Un turista apre la porta di un negozio, entra: trova il negoziante abbattuto in mezzo ai suoi fiori.
Più velocemente. Una macchina che improvvisamente rallenta davanti alla bottega di un pescivendolo. Spunta la canna di un mitra. Seguendone la mira e i colpi, un uomo si abbatte davanti al banco dei pesci. La macchina riprende velocità. Stessa scena, ma più notturna, in una strada meno affollata: un uomo viene abbattuto mentre sta aprendo il portone di casa. Stessa scena davanti a un’officina per automobili: l’uomo si accorge della macchina, tira fuori la pistola. La raffica lo raggiunge prima che riesca a prendere la mira.
Cadaveri coperti da teli, piantonati dai carabinieri, mentre scorrono i titoli.
Un’aula giudiziaria. Una donna vestita di nero seduta quasi al centro, tra il banco della corte e quello degli avvocati, alle spalle la gabbia degli imputati, di fronte il pubblico ministero. Dice: “In quel momento, a Palermo, non si capiva niente. Si ammazzavano tra loro, era tutta una catena. Certo, le ragioni ci dovevano essere: interessi, concorrenza, sgarberie, il sospetto che qualcuno facesse la spia. A volte c’erano anche questioni di corna. Ma erano sopratutto gli interessi che facevano nascere tanti ammazzamenti. Interessi grossi… Ma io torno a dire che mio marito, in questi interessi, non c’entrava per niente. Badava alle sue cose, era tranquillo. Ma lo sospettavano di aver fatto infamità, che quando lo avevano arrestato avesse parlato e perciò avevano poi arrestato don Filippo. Ma non era vero, mio marito non aveva detto mezza parola. Ma don Filippo il sospetto lo aveva. Mio marito lo sapeva, e aveva fatto di tutto per arrivare a un chiarimento. E siccome quello non voleva sentire ragione, mio marito il colpo della vendetta se lo aspettava. Quel giorno, poi, fu chiaro che qualcosa doveva succedere. Tutto cominciò con i due camion, di prima mattina…”.»
Leonardo Sciascia, Per Carlo Lizzani.