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Le guerre civili

I bianchi

by Giulia Cioffi
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Il potere bolscevico non poté dirsi definitivamente consolidato fino al termine delle guerre civili, che trascinarono il neo stato orientale nel caos totale.

I maggiori nemici interni dei rossi bolscevichi erano, comprensibilmente, monarchici e ufficiali del decaduto esercito zarista, ma anche liberali e sciovinisti. I bianchi, così passati alla storia, costituivano una forza eterogenea, caratterizzata da difficoltà di coordinamento e tendenza alla disobbedienza dei suoi membri. Questi gruppi erano infatti molto frammentati a causa dell’appartenenza a diverse correnti di pensiero, che li portò in più occasioni ad agire individualmente senza coordinazione; ciò che unicamente li univa era il desiderio di non veder la propria patria nelle mani di Lenin e seguaci.

Già nel novembre 1917, subito dopo la presa del potere bolscevica, i gruppi anticomunisti si organizzarono ad Omsk in Siberia, dove più tardi si insediò il governo provvisorio controrivoluzionario di Kolčak, e nel sud della Russia, nel bacino del Don. Qui i cosacchi costituivano una forza di rilievo sul cui appoggio contavano i monarchici, in virtù della loro antica fedeltà verso gli zar.

Unendo le forze, bianchi e cosacchi conquistarono Rostov sul Don, che divenne una delle prime roccaforti, fino a quando l’Armata Rossa, organizzata da Lev Trotsky, non la riconquistò nel febbraio 1918.

 

 

Nello stesso periodo fu inaugurato dal regime il cosiddetto Comunismo di guerra, un insieme di misure straordinarie destinate a garantire la sopravvivenza del potere sovietico durante il conflitto. Tale sistema prevedeva la nazionalizzazione dell’industria, il controllo statale sulla produzione e distribuzione dei beni, il razionamento forzato, la militarizzazione del lavoro e, soprattutto, le requisizioni di grano nelle campagne, che suscitarono forte malcontento tra i contadini e diedero origine a diffuse rivolte.

L’estate 1918 rappresentò uno dei momenti di maggior crisi per i bolscevichi; le armate bianche avanzavano da sud e nord, e la nuova forza dei rosa premeva da est. Gli SR di sinistra, che avevano inizialmente sostenuto il nuovo governo per poi distaccarsene, avanzavano dalla regione del Volga con l’aiuto di prigionieri cechi che, catturati in qualità di soldati asburgici durante la guerra, riusciti ad evadere, avevano l’obiettivo di attraversare quell’immenso territorio in subbuglio per far ritorno al proprio paese da poco divenuto indipendente.

In questo clima particolarmente teso, i bolscevichi presero una decisione destinata a suscitare polemiche: l’esecuzione della famiglia Romanov, detenuta a Ekaterinburg. Lenin e il governo bolscevico temevano che, se liberati, Nicola II e i suoi familiari potessero diventare un simbolo attorno al quale coalizzare le forze controrivoluzionarie. L’eliminazione dei Romanov privò dunque i Bianchi di un possibile punto di legittimazione monarchica, ma la scelta, pur motivata da calcoli politici, risultò impopolare e macchiò ulteriormente l’immagine del nuovo regime agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.

La disfatta subita a Rostov non segnò la fine delle offensive bianche. Tra il 1919 e il 1920 essi tornarono a minacciare seriamente il potere bolscevico: in Siberia l’ammiraglio Kolčak instaurò un governo provvisorio a Omsk e mosse le sue armate verso Mosca; da sud, attraverso il Caucaso e l’Ucraina, avanzò il generale Denikin con il suo esercito volontario, giungendo a meno di 500 chilometri dalla capitale; infine, da nord-ovest, il generale Judenič tentò di conquistare Pietrogrado. Sembrava che i bolscevichi fossero circondati su ogni fronte.

La sopravvivenza del regime dipese dalla capacità di Trotsky, nominato commissario alla guerra, di organizzare l’Armata Rossa come una forza disciplinata ed efficiente. Pur contando inizialmente su volontari operai e contadini, l’esercito rivoluzionario arruolò progressivamente migliaia di ex ufficiali zaristi, sorvegliati da commissari politici incaricati di garantirne la fedeltà al partito. Tale struttura permise ai bolscevichi di mantenere il controllo delle linee ferroviarie e dei principali centri urbani, un vantaggio strategico che si rivelò decisivo.

Nel frattempo, il sostegno popolare ai Bianchi si erodeva: la loro incapacità di proporre un programma politico comune, unita alla brutalità con cui spesso trattavano le popolazioni locali, alimentava diffidenza e ostilità. Le promesse di restituzione delle terre ai grandi proprietari si scontravano con le aspettative dei contadini, che avevano già occupato gli appezzamenti. Al contrario, i bolscevichi, pur ricorrendo a requisizioni e repressione, riuscivano a presentarsi come i soli difensori della rivoluzione e della pace sociale.

Entro la fine del 1919 la situazione si rovesciò: Kolčak fu sconfitto e catturato dagli stessi socialisti rivoluzionari di sinistra, che lo giustiziarono nel febbraio 1920; l’offensiva di Denikin crollò e il generale dovette fuggire, cedendo il comando a Wrangel, che si rifugiò in Crimea; Judenič, privo di rinforzi, fu respinto alle porte di Pietrogrado.

Il 1920 segnò dunque la fase conclusiva della guerra civile. L’Armata Rossa riuscì ad annientare le ultime resistenze bianche nel sud: in novembre Wrangel evacuò la Crimea con ciò che restava del suo esercito, che trovò rifugio a Costantinopoli sotto la protezione delle potenze occidentali. Allo stesso tempo, i bolscevichi furono impegnati anche contro la Polonia, con la quale si scontrarono in un conflitto aperto. Il conflitto scaturì dall’insoddisfazione polacca per i confini riconosciutigli durante la Conferenza di Parigi; ai territori sotto il controllo di Varsavia furono annesse la provincia di Minsk, la regione oggigiorno ucraina di Leopoli.

 

 

Non corrispondendo all’estensione della grande Polonia storica, che comprendeva fette più ampie dell’Ucraina moderna e della Lituania, il governo di Varsavia iniziò la sua marcia verso Kiev.

Combattendo al fianco degli ucraini, i bolscevichi partirono a loro volta verso Kiev, entrando in aperto conflitto con la Polonia; la capitale ucraina fu liberata e l’Armata Rossa continuò ad avanzare fino alla Vistola, alle porte della capitale polacca. Qui, una prova di immenso coraggio e patriottismo polacco portò alla miracolosa vittoria della Polonia e al ritiro delle truppe sovietiche e alla pace di Riga, che spartiva i territori bielorussi e ucraini: le regioni occidentali della Bielorussia entrarono nei confini polacchi, insieme alla regione ucraina di Leopoli e alla capitale lituana Vilinius; il governo di Lenin annesse invece il resto dei territori orientali di Bielorussia e Ucraina.

Gli anni successivi furono segnati da ulteriori focolai di ribellione, ma era ormai piuttosto chiaro l’esito della guerra civile; la rivolta di Tambov (1920-21), guidata dai contadini contro le requisizioni di grano, e l’ammutinamento dei marinai di Kronštadt (marzo 1921), un tempo fedeli alla rivoluzione, testimoniarono l’ampio malcontento verso il Comunismo di guerra. Entrambe le insurrezioni furono represse con estrema durezza dall’Armata Rossa, ma lasciarono segni profondi, che portarono successivamente Lenin a riconsiderare certi aspetti dell’assetto economico precedentemente implementato.

Nel 1922, con la sconfitta delle ultime sacche di resistenza nell’Estremo Oriente e in Siberia, la guerra civile poté dirsi conclusa. La Russia usciva devastata: milioni di morti, città e campagne distrutte, carestie e un tessuto sociale lacerato. Ma i bolscevichi avevano ottenuto ciò che più contava: il monopolio assoluto del potere.

 

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