Scandalo nel giorno di Santo Stefano 2025 per il video social postato da Ignazio La Russa, presidente del Senato. Spiega La Russa l’inizio della fiamma in quel lontano 26 dicembre del 1946. E l’anno venturo ricorrono proprio gli 80 anni del MSI. Non era un feretro del Duce quel logo né un tripode, dice, ma un simbolo d’amore, una sorta di Biancofiore di patria e umanità. Aldilà della retorica ex post sappiamo bene che non fu proprio così. Non fu tutto amore e democrazia quel partito. Era infatti il MSI un partito “movimento” – qui l’invenzione giusta – creato da ex gerarchi e reduci vogliosi di inserirsi nel gioco democratico. Cosa che avvenne anche grazie al Pci e Togliatti che i fascisti preferirono domesticarli per poterli controllare, piuttosto che lasciarli agire da sovversivi. E c’è una vasta storiografia al riguardo che spiega questo strano compromesso storico delle origini con il PCI. Talché i fascisti furono fin dall’inizio post-fascisti, come dice nel video sempre La Russa citando Almirante, e lo furono appunto “senza voler restaurare né rinnegare”.
Che significa? Nient’altro che il tentativo coerente da parte degli eredi di Salò di ribaltare dall’interno la Costituzione repubblicana e parlamentare, accettandone le regole in direzione di un presidenzialismo post parlamentare, e con riduzione della divisione dei poteri. L’intento senza dubbio veniva perseguito con duplice modalità, fonte di dissidi dentro il MSI nel dopoguerra. O con la manovra tattica o con il movimentismo d’assalto in condizioni di emergenza: dall’ alto e dal basso. Come negli anni ’70.
Ma è negli anni ‘90 che il Movimento sociale diventa davvero movimento, e dunque movimento attuale: con la rottura della prima repubblica e dei suoi equilibri. Perché la carta vincente – e qui sta l’intuizione di Almirante – era ed è il movimentismo populista dal basso e dall’alto. Stato movimento e popolo, insomma, per dirla con Carl Schmitt, verso un presidente o un premier eletto dal popolo nel quadro del maggioritario che liofilizza i partiti rendendoli personali e trasversali. Destino a cui non sfuggi neanche il PDS-Ds-Pd.
In tal senso ebbe ragione negli anni ‘90 il tanto bistrattato (da Giuli) Marcello Veneziani a definire il berlusconismo una “occasione storica” in cui inserire il post-fascismo, che in quanto neofascismo revisionato è sempre stato post. Di necessità, ovviamente, visto che nemmeno Rauti e Almirante hanno mai pensato ai labari e alle camicie nere. Qui sta oggi la vera egemonia e la vera cultura di destra di cui tanto si discetta. Non nelle stravaganze alchemiche e kitsch di Giuli ministro, o in quelle posticce del Gramsci o di Pasolini di destra per via del nazional popolare. Che sono cose di contorno. Quanto piuttosto in una certa idea di stato coeso nazionale autoritativo al centro, e corporativo verso i ceti proprietari e i territori, con scomposizione dei lavoratori in categorie sociali particolari. Il tutto nel quadro di un esecutivo forte e plebiscitato, che limita e comprime i controlli di legalità. In tal senso vanno infatti sia la riforma della giustizia con il Pm rafforzato e separato, sia le prove tecniche di premierato da attuare via via a partire dal nome sulla scheda e il super premio di coalizione. Insomma, il MSI-An-FdI può vantare in tal senso una ben precisa continuità di identità e di cultura politica che è vano voler infrangere con richieste di abiure antifasciste. Dal momento che l’entità voluta da Almirante nel lontano 1946 da un lato si è perpetuata sempre fino ad oggi come post-fascista, dall’altro non può rinunciare alla sua identità tramandata pur tra strappi e revisioni. E non può certo farlo nel momento del suo massimo successo.
