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Ma l’astensione non è sfiducia nella democrazia

e se poi i candidati dicono le stesse cose, come in Campania…

by Luigi Gravagnuolo
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Assistiamo in Italia e in molti Paesi euroccidentali ad una crescente disaffezione dal voto. In Italia alle elezioni politiche del 25 settembre del 2022 ha votato il 64% degli aventi diritto. Nel 2018 aveva espresso il voto il 73%, nel ‘13 il 75%. Un trend in evidente discesa. E nelle ultime tornate regionali nelle Marche, in Calabria e in Toscana si è andati ancora più giù.

Dunque astensione. È disaffezione al voto o stanchezza della democrazia? E la disaffezione è un sintomo della seconda? Piano a trarre conclusioni affrettate. Certamente si avverte una stanchezza della democrazia e dei suoi riti. Però qualche segnale di inversione di tendenza va registrato e, nei limiti in cui ci si riesce, indagato.

Dell’Italia abbiamo detto. Anche la Gran Bretagna registra un calo della partecipazione al voto, tra il ‘19 e il ‘24 ha perso il 7% degli elettori, passando dal 67% al 60%. Viceversa in Francia, dove nel ‘22 aveva espresso il voto solo il 46,2% degli aventi diritto, lo scorso anno ha votato il 66,6%, la percentuale più alta da tempo. In Germania dal ‘21 a quest’anno gli elettori sono passati dal 76,4% all’82,5%. Stabile l’Olanda, che conferma nel tempo l’80% dei votanti. Raddoppiata infine la percentuale di votanti per la scelta del sindaco a New York City. Nel ‘21 aveva votato il 23% degli aventi diritto, la settimana scorsa si è arrivati al 40%. Pochi a fronte dei dati tedeschi o olandesi, ma pur sempre l’affluenza più alta a NYC dal 1969 a oggi!

Dunque dati contrastanti, che non giustificano considerazioni definitive sulla stanchezza della democrazia in Occidente, o per lo meno il nesso tra scarsa affluenza e decadenza della democrazia. Piuttosto, in questa parte del mondo si registrano oscillazioni importanti dell’affluenza. Sia tra una nazione e l’altra, sia nelle stesse nazioni tra una tornata elettorale e l’altra. Come si spiega questo andamento?

L’affluenza è maggiore là dove si scontrano due visioni della società e del mondo radicalmente contrapposte. E oggi ciò si verifica in particolare nei Paesi nei quali è palpabile la possibilità di un governo di destra radicale. La destra sovranista e populista – quella della difesa dei privilegi del primo mondo rispetto al sud del mondo, dell’astio viscerale verso i migranti, del ritorno ai valori tradizionali fino ad ammiccare a concezioni teocratiche – cresce in consensi tra i ceti medi e anche nel proletariato ‘bianco’, ma arrivata alle soglie della conquista del governo suscita (per ora) una reazione di rigetto. È successo così in Francia lo scorso anno, quando alle legislative si profilava una grande vittoria della Le Pen. Così in Olanda a fronte della prospettiva di un governo di estrema destra di Geert Wilders. Così in Germania, dove addirittura si temeva che conquistasse la maggioranza del Bundestag l’AFD, formazione neonazista.

Ancora più eloquente il caso di New York City, dove le politiche federali ultra-reazionarie di Donald Trump hanno portato alle urne il doppio degli elettori della tornata precedente, con la vittoria di Zohran Mamdani, immigrato di seconda generazione, socialista e portatore di una idea di società totalmente antitetica rispetto a quella del MAGA. Per converso a novembre del ‘24 Trump aveva fatto bottino pieno non solo negli Stati chiave ma anche nel voto popolare, promettendo di cambiare drasticamente la politica interna ed estera degli USA rispetto agli anni dell’egemonia della cultura woke.

Insomma, sono la chiarezza dell’alternativa e lo scontro frontale tra due visioni del mondo antagoniste che spingono le persone a prendere posizione. Solo un’esigua minoranza di elettori si reca alle urne dopo aver analizzato col bilancino i programmi degli uni o degli altri. La grande maggioranza vota su base emotiva, il bene da una parte e il male dall’altra. Sono le paure e le speranze che portano la gente alle urne. L’elettore di sinistra ha paura della vittoria della destra estrema e va a votare per scongiurarla; spera che la sinistra possa vincere e va a votare per rafforzare questa speranza. Quando le due o più visioni non sono plasticamente evidenti la gente non si appassiona.

Facciamo il caso delle regionali in Italia. Già le Regioni per se stesse non vengono percepite dall’elettore popolare come in grado di trasformare la realtà delle cose. Se poi i programmi sono affini e i contendenti sono entrambi rassicuranti, non si determina nessuno scatto emotivo.

In Campania la destra di Edmondo Cirielli promette di eliminare le ecoballe, di rivitalizzare i borghi rurali, di ridurre i tempi delle liste di attesa nella sanità, di assumere nuovi medici e infermieri, di rendere più efficienti i trasporti. Esattamente gli stessi obiettivi promessi da Roberto Fico. Ma Cirielli accusa le giunte De Luca di non aver risolto i problemi che lui invece risolverà, e Fico accusa il governo nazionale della loro mancata soluzione, garantendo che con lui ci sarà la svolta risolutiva. Né i candidati outsider dicono cose diverse.

In definitiva l’elettore medio capisce solo che la destra dice corna e peste della sinistra perché vuole mettersi al suo posto nella stanza dei bottoni e la sinistra ricambia le corna e la peste perché non vuole lasciare le sue posizioni. Nella percezione dell’elettore medio una competizione tra coalizioni politiche le quali poi, qualunque sarà l’esito del voto, farebbero le stesse cose.

Ammesso che sia così, chi l’ha detto che sia un vulnus per la democrazia? I governi pragmatici da sempre in Italia hanno fatto meglio dei velleitarismi ideologici. Le ricordate la spesa allegra di Berlusconi, che ci portò sulle soglie del default di Stato, e le disastrose stravaganze dei governi a egemonia grillina e leghista?

In fondo gli elettori hanno buon senso. A loro sta bene che chi arriva al governo sia una persona moderata e capace di risolvere i problemi. Se riconoscono analoghe virtù e analoghi difetti negli uni o negli altri, e se non hanno favori da chiedere o da ottenere né amici da aiutare col proprio voto, danno poca importanza al voto. Ma questo è segno di tranquillo appagamento, non di stanchezza democratica.

 

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