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Ozzy Osbourne, l’ultimo urlo del Principe delle Tenebre

l’anima più profonda e disturbante dell’heavy metal

by Francesca Pica
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Il mondo della musica perde una leggenda inimitabile, Ozzy Osbourne, scomparso l’altro ieri a 76 anni. Con lui se ne va l’anima più profonda e disturbante dell’heavy metal. Un artista che ha trasformato gli eccessi in arte, la follia in linguaggio, il dolore in voce. Per decenni aveva sfidato tutto: la vita, la malattia, la logica stessa della sopravvivenza. Ogni volta era riemerso, malconcio, sbilenco, vivo, come un dio sgangherato del rock. Ma stavolta no, stavolta il sipario è calato sul serio.

Appena qualche settimana fa, lo scorso 5 luglio, i Black Sabbath avevano tenuto un concerto storico nella loro Birmingham, segnando la fine di una carriera che ha rivoluzionato la musica. Back to the beginning è stato definito “il concerto del secolo” e aveva visto sul palco insieme per l’ultima volta i quattro padri del metal: Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward.

Nonostante le difficoltà legate alla sua salute, con il morbo di Parkinson che lo affliggeva, Ozzy aveva trovato la forza di esibirsi nella sua città, là dove tutto è cominciato. Aveva cantato seduto su un trono nero, battendo le mani, agitando le braccia e lanciando sguardi selvaggi, proprio come ai vecchi tempi, reggendo il microfono a fatica, da solo e con i ritrovati Black Sabbath. Aveva commosso tutti, i 42mila allo stadio e i milioni connessi online, con l’esibizione cruda del suo dolore.

Lo sapevano tutti, in fondo, che quella sarebbe stata l’ultima volta. Ozzy stava cedendo al suo corpo stanco, dopo una vita a bruciare ogni energia. Ma la sua voce era ancora lì, viva, ruvida e straziante come un abbraccio disperato. Un saluto intenso, vibrante, davanti a migliaia di fan che lo hanno accompagnato in un abbraccio collettivo.

Con i Black Sabbath, Ozzy Osbourne ha contribuito a creare le fondamenta dell’Heavy Metal negli anni ’70, diventando presto un’icona controversa ma amatissima. Brani come Paranoid, Iron Man e War Pigs hanno segnato un’epoca, portando la band e il suo frontman nell’Olimpo del rock.

La carriera solista, iniziata negli anni ’80, ha consolidato la sua immagine di “Principe delle Tenebre”, alimentata da eccessi, provocazioni e uno stile inconfondibile. Nonostante le numerose sfide personali, Osbourne è sempre tornato sulla scena con grinta e ironia, diventando anche un personaggio televisivo e una figura amatissima dal pubblico di ogni età.

Ozzy non è stato solo shock rock e scandali – simboli come il morso al pipistrello sul palco scandirono la sua fama – ma anche la manifestazione più autentica del metal: crudo, irriducibile, vero. Ozzy era sgraziato, eccessivo, fuori da ogni regola. E proprio per questo autentico. Con i Black Sabbath ha creato un suono che prima non esisteva. Ha preso l’oscurità, l’ha amplificata e ci ha costruito una casa. Una casa dove in tanti hanno trovato accoglienza.

Il suo non era solo metal. Era teatro, confessione, poesia disturbata. Era la voce roca di chi ha sbagliato mille volte, ma ha continuato a cantare. Non ha lasciato solo canzoni. Ha lasciato un modo di convivere col mondo. Ha insegnato che si può essere strani, devastati, fuori controllo, eppure capaci di cambiare tutto. Con rabbia, con sbavature, con errori oltre misura eppure quasi mai fatali. La sua voce era la voce del buio che, talvolta, cerca redenzione o almeno ristoro. Ozzy non ha mai fatto finta di essere migliore. Era l’eroe tragico per antonomasia: grottesco, ridicolo, potentissimo. Ha trasformato la sua rovina in arte. Ha dato rifugio a chi non si sentiva rappresentato da nessuno. E lo ha fatto con un microfono, una croce al collo e gli occhi spiritati di chi vede troppo.

 

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