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Qui rido io, di Mario Martone

by Giulio Espero
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In concorso all’ultima mostra cinematografica di Venezia, conclusasi qualche giorno fa, e nelle sale dal 9 settembre per 01Distribution, “Qui rido io” è il film di Mario Martone incentrato su parte delle vicende storiche e personali di Eduardo Scarpetta, il più grande commediografo italiano a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento (per chi lo avesse dimenticato).

Un regista in stato di grazia, una storia interessante, un cast di altissimo livello ed una sceneggiatura attenta e rigorosa, ne fanno uno dei film più importanti della cinematografia italiana degli ultimi anni.

Il cinema come mezzo di divulgazione popolare è la visione che il regista porta avanti da sempre, già dai tempi del famoso Morte di un matematico napoletano (debutto cinematografico di Toni Servillo che qui, pur difettando di tempi comici, mette su una recitazione da manuale), e che in questo film trova una riuscitissima applicazione grazie anche ad una schiera di attori particolarmente credibili. Toni Servillo, appunto, nella parte del protagonista. Maria Nazionale (si proprio lei, la cantante neomelodica). Cristina Dell’Anna (ricordate Gomorra?). Alessandro Manna, Eduardo Scarpetta, Lino Musella, Iaia Forte. Non sembrano neanche recitare, tanto sono compenetrati ed imbevuti della realtà che raccontano.

La storia è quella nota di Eduardo Scarpetta, della sua famiglia allargatissima e della sua compagnia teatrale, dell’apice del suo impressionante successo professionale. Commediografo ed attore di straordinario talento, uomo di imbarazzanti voracità sessuali e sentimentali, con la figura di Felice Sciosciammocca soppiantò nel cuore del pubblico partenopeo la figura di Pulcinella interpretata da Antonio Petito. “Io l’agg ucciso, ‘a Pulcinella” dice con enfasi drammatica ad un certo punto Eduardo (il protagonista) in faccia ad Eduardo Scarpetta (l’attore che interpreta uno dei suoi tanti figli).

Mogli, amanti, figli naturali e figli illegittimi sono tutt’uno con la compagnia teatrale. Vita privata e vita lavorativa convivono tra alti e bassi, influenzandosi a vicenda. Emblematica e commovente la vicenda dei fratelli De Filippo: Eduardo, Titina e Peppino, avuti da una cugina della moglie e mai beneficiati del proprio cognome, che interpretavano a turno da bambini il personaggio di Peppiniello in Miseria e Nobiltà.

È proprio con Miseria e Nobiltà si apre il film. La famosa sequenza dell’abboffata dionisiaca e liberatoria di pasta, con Felice Sciosciammocca che, balzato in piedi sul tavolo da cucina si infila gli spaghetti nelle tasche della logora giacca per paura che possano sparire da un momento all’altro. Scena che non viene filmata dalla parte degli spettatori ma, ribaltando completamente il punto di vista, viene ripresa dalla parte degli attori che sono così magicamente attori di teatro ed attori di cinema simultaneamente.

Un film che diviene anche una riflessione sul senso del teatro e dei limiti (o dell’assenza di limiti) della rappresentazione scenica, dove un po’ alla volta si insinua il tarlo del tempo che passa. “Ma come, voi che sapete ridere su tutto, non sapete ridere sul tempo che passa?”, domanda Benedetto Croce (l’ottimo Lino Musella) a Scarpetta. Il quale, forse, ha voluto soprattutto far finta di non vedere l’Italia che cambia volto e tecniche (“È arrivato pure il cinematografo! Mi volete fare impazzire!”, grida a un certo punto).

Mettere in scena una commedia per rappresentare una tragedia (schema usato anche più tardi da Eduardo de Filippo). Qui rido io, non si sottrae a questo gioco, mostrando con efficacia la grandezza dell’attore e dell’autore e le miserie umane e terrene dell’uomo, che seppero sconfiggere insieme, ci ricorda il film, nientemeno il vate D’Annunzio che lo aveva pretestuosamente portato in tribunale con l’accusa di plagio per una parodia del dramma La Figlia Di Iorio.

Per chi non lo sapesse, Qui rido io è la beffarda epigrafe che Scarpetta fece iscrivere sulla facciata del palazzotto vomerese, costruito, pare, con i proventi di una sola delle sue commedie (per la precisione, La santarella). Dopo una vita passata a far ridere il suo pubblico, l’uomo Scarpetta traccia un confine: il mio sorriso è la mia famiglia, qua metto bocca soltanto io.

Film consigliato, oltre che per il valore intrinseco dell’opera, anche a chi ama immergersi nella Napoli del tempo senza troppe oleografie, quando era davvero una capitale culturale di livello europeo.