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Referendum, il fiasco annunciato

Ha perso la sinistra? No, perché può perdere solo chi esiste

by Luigi Gravagnuolo
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La politica – mi diceva una vecchia volpe della prima repubblica – si fa con i numeri. Avrebbero potuto e dovuto tenerne conto i promotori dei referendum.

Per evitare equivoci, non è che si fanno le battaglie solo quando si è sicuri di vincerle; se sono giuste, si fanno, punto. Solo che la politica deve saper scegliere le modalità della lotta in relazione ai rapporti di forza reali. A soli fini esplicativi: per paradosso, se nel 1935 gli antifascisti italiani avessero potuto far ricorso ad un referendum abrogativo del fascismo e avessero scelto quella forma di lotta le avrebbero prese di santa ragione. L’obiettivo sarebbe stato giusto, la modalità della lotta sbagliata. Ma torniamo al referendum appena celebrato.

Gli aventi diritto al voto in Italia sono 46 milioni, per raggiungere il quorum sarebbero perciò occorsi 23 milioni di votanti. Mettendo insieme i voti del 2022 dei partiti promotori del referendum non si arriva a 12 milioni. 11,6 milioni per la precisione. Chi ha pensato che sarebbe stato possibile non solo riportare nelle urne quei dodici milioni circa delle ultime politiche ma aggiungerne altri dodici? Come possono gruppi dirigenti scafati prendere decisioni tanto velleitarie? E non è neanche andata tanto male, in fondo i votanti sono stati circa quattordici milioni.

E così i generali di questa caporetto annunciata si stanno dicendo, per farsi coraggio, che ‘dai che stiamo recuperando sull’astensione, se insistiamo tra due anni ce la faremo’.

Baggianate. Ricordate il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 sulla Riforma Renzi-Boschi? I SI furono il 41% i NO il 59% e la riforma fu bocciata. Una bastonata, eppure in tanti scrissero che Renzi aveva perso il referendum ma il suo partito, il PdR (Partito di Renzi), era al 40%. Dopo due anni, alle politiche del ‘18, il PD faticò a prendere il 18%. E ora Renzi con la sua Italia Viva viaggia sul 3%. Le sconfitte portano demotivazione.

Il guaio fatto è dunque grosso. Il primo a pagarne ora le spese è l’istituto stesso del referendum abrogativo. L’organizzazione dei seggi costa e già è partita la canea contro quelli che, per i loro giochi politici, fanno spendere soldi agli Italiani. E si fa strada il proposito di renderne più difficile l’accesso, magari raddoppiando il numero di sottoscrizioni necessarie per richiederlo. Eppure l’istituto in quanto tale, se usato a proposito, sarebbe di per sé un arricchimento della nostra democrazia. La quale, si sa, è una democrazia delegata, che non contempla la partecipazione dei cittadini se non per il tramite dei ‘corpi intermedi’ e del voto delegante. Il referendum ne è un contrappeso, uno spiraglio aperto per la partecipazione dei cittadini non mediata. Attenti a non buttare via con l’acqua sporca anche il bambino.

Il problema non è il referendum, è il suo abuso e soprattutto il suo uso strumentale, di natura partitica il più delle volte, per finalità estrinseche alle sue finalità costituzionali. Che senso ha chiedere agli Italiani di decidere in materia giuslavoristica, su singoli nodi contrattuali? A tale riguardo il risultato è che oggi la maggioranza può ben sostenere che al 70% degli Italiani il jobs act e le altre normative oggetto dei quattro quesiti stanno più che bene. E vi voglio ora ad aprire una lotta sindacale o parlamentare per la loro modifica!

Ancora peggio è andata per la cittadinanza agli stranieri. Qui non solo il 70% degli aventi diritto non ha ritenuto di dedicare dieci minuti del proprio tempo per esprimere il voto, ma tra quelli che hanno votato il 35% (quattro milioni) ha votato NO. Non sarebbe stato più sensato fare fino in fondo la battaglia parlamentare e quella culturale nel Paese, magari cercando un compromesso per cominciare ad ottenere la riduzione di due o tre anni del tempo di attesa per il conseguimento della cittadinanza italiana? Chi ha potuto pensare che nell’Italia di oggi – ma vale per tutto l’Occidente – la maggioranza degli elettori sarebbe stata favorevole agli immigrati?

C’è tuttavia da dire che il tema della cittadinanza agli immigrati – questo sì – era coerente con lo spirito dell’istituto referendario. Così come lo furono il divorzio o il nucleare, o il finanziamento dei partiti, o l’acqua pubblica e il sistema elettorale. Temi non settoriali, ma di interesse generale, trasversali rispetto ai partiti. Magari, se il referendum fosse stato richiesto solo su questo punto, avrebbe potuto costituire l’occasione per una grande discussione nazionale e popolare sull’immigrazione. Chissà, forse avrebbe coinvolto un maggior numero di cittadini. Alla fine i NO alla riduzione da 10 a 5 anni per aver diritto alla cittadinanza sarebbero comunque stati maggioritari, l’opinione dei più in Italia oggi è questa. Ma per lo meno se ne sarebbe parlato in modo approfondito.

Ha perso dunque la sinistra? No, perché può perdere solo chi esiste. Hanno perso i cavalieri di ventura che hanno condotto i propri disordinati manipoli all’assalto all’arma bianca di un fortino viceversa ben presidiato.

Ecco, forse, se la sinistra o chi altro si voglia tornasse ai ‘fondamentali’ e a ben ponderare le proprie forze prima di scegliere il modo di condurre le sue battaglie; soprattutto se tornasse a chiedersi qual è l’interesse generale dell’Italia, prima che quello della propria parte politica, e poi della propria parte nella parte politica, potrebbe ritrovare una propria credibilità come potenziale forza di governo.

E badate, chi ha scritto il pezzo che avete letto è andato a votare. Come i patrioti di Carlo Pisacane sull’Allonsanfàn dei fratelli Taviani.

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