“La guerra è una maestra violenta”: così Tucidide nel capitolo 82 del terzo libro della sua storia che, assieme al successivo, interrompe la narrazione dei fatti per “tracciare un quadro grandioso e terribile degli effetti della ‘stasis’, la “guerra civile”, in tanta parte delle città greche, dopo aver descritto le stragi provocate nell’isola di Corcira dallo scontro violento tra democratici e oligarchici, innescato, o perlomeno favorito, dalla crescente tendenza alla bipolarizzazione, che conobbe una decisiva intensificazione negli anni della guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta (431 – 404 a.C.)” (Dino Piovan). Il resoconto di quei massacri, che riproducono per tutto il mondo ellenico lo scontro tra le due grandi potenze, fa parte dell’insegnamento che Tucidide intende lasciare ai suoi lettori e alle generazioni future.
«A tal punto di ferocia arrivò quella guerra civile, e parve ancora più feroce perché fu la prima tra tutte. Giacché in seguito tutta la stirpe greca, per così dire, subì tali sconvolgimenti, per il sorgere universale di conflitti tra i capi del popolo, che volevano far venire gli Ateniesi nella loro città, e gli oligarchi che invitavano i Lacedemoni. E se in tempo di pace le fazioni non avevano pretesti e non erano pronte a invitare le due potenze nemiche, una volta che queste entrarono in guerra facilmente si effettuavano richieste di alleanza, per poter colpire i nemici e procurarsi con ciò dei vantaggi, da parte di coloro che desideravano novità politiche. E con le sedizioni molte e gravi sciagure piombarono sulle città, sciagure che avvengono e sempre avverranno finché la natura umana sarà sempre la stessa, ma più gravi o più miti e differenti nell’aspetto a seconda del mutare delle circostanze. Ché in tempo di pace e di prosperità le città e i privati cittadini provano sentimenti migliori, per il fatto che non incontrano necessità che si oppongono al libero volere; al contrario, la guerra, che toglie il benessere delle abitudini giornaliere, è una maestra violenta e adatta alla situazione del momento i sentimenti della folla (…). E l’usuale valore che le parole avevano in rapporto all’oggetto fu mutato a seconda della sua stima. Ché l’audacia dissennata fu considerata ardire devoto alla causa dei congiurati, e la previdente cautela viltà mascherata da un bel nome, e la moderazione un manto del vile, e la prudenza in ogni cosa un essere oziosi in ogni cosa. L’essere follemente audace fu considerato cosa degna del carattere dell’uomo, e il riflettere per tentare un’impresa da una posizione di sicurezza un ragionevole pretesto per rifiutare.
E chi si adirava era persona fida in ogni occasione, chi lo rimbeccava era sospetto. Uno che tendeva insidie, se riusciva nel suo intento, era intelligente, e se le sospettava, era ancora più abile, mentre chi prendeva le sue misure in modo da non aver bisogno di quelle cautele era considerato distruttore della sua società politica e timoroso dei nemici (…). E il legame di sangue divenne meno stretto di quello della società politica, poiché quest’ultima era più pronta a osare senza addurre pretesti: queste conventicole, infatti, non si formavano per ottenere vantaggi in conformità delle leggi, ma per fare dei soprusi con la violazione di quelle vigenti. E garantivano la fede datasi reciprocamente non tanto per mezzo delle leggi divine, quanto per mezzo di una comune violazione di quelle umane (…). E i giuramenti di rappacificazione, quando avvenivano, una volta che erano stati scambievolmente concessi, avevano momentaneo valore di fronte alle necessità che non concedevano ai contraenti altra risorsa. Ma all’occasione, chi per primo poteva prender fiducia nelle proprie forze, se vedeva il nemico indifeso provava più piacere a vendicarsi approfittando della sua buona fede che agendo scopertamente, e a questo scopo faceva affidamento sulla sicurezza del successo e sul fatto che vincendo con l’inganno avrebbe avuto in più il premio di essere considerato intelligente.»
Tucidide. La guerra del Peloponneso (trad. Domenico Musti).