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Recensione dei ‘Racconti dall’Irpinia’ di Giuseppe Tecce

la forza del racconto è nel dare ai personaggi una capacità catarifrangente

by Piera De Prosperis
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La raccolta di novelle di Giuseppe Tecce, Racconti dall’Irpinia, (Prefazione di Luigi Tecce, Postfazione di Giuseppe Cresta, grausedizioni 2025) già nel titolo presenta una sua specificità. Dall’Irpinia: come se quel complemento di origine o provenienza sottolineasse come tutto sia già presente in quel luogo e da lì provenga la voce dei racconti. Non è l’autore che è andato in Irpinia a creare storie ma è la natura magica di quel territorio che si fa sentire a distanza perché lì vive e va cercata. Il testo si apre con la dedica ad Osvaldo Sanini, giornalista e scrittore, sovversivo antifascista arrestato nel 1940 mentre rientrava da Parigi nella sua Genova e confinato a Grottaminarda nel 1941. Nel paese irpino morì nel 1962, rappresentando per quella comunità un riferimento culturale e civile. Tecce dice: A Osvaldo Sanini, che giunse tra queste alture come uomo in esilio e vi restò come poeta innamorato. Alla sua voce, che seppe ascoltare il respiro dei boschi, dedico queste storie, affinché l’Irpinia continui a parlare a chi sa leggere con il cuore.

E’ lo spirito con cui va affrontata la lettura dei dodici racconti che compongono la raccolta: uno per mese, uno per paese o zona irpina. Una lettura immersiva che vuole omaggiare una terra aspra ma ricca di bellezza e tradizioni che risalgono a tempi precedenti alla dominazione romana. In uno dei racconti la descrizione del solido e taciturno protagonista del racconto Germano di Lago Laceno è l’occasione per aprire uno spiraglio sulla storia della popolazione irpina: Un popolo forte, ostile, ribelle, forse il più forte e ribelle di tutte le popolazioni del Sannio. Guerrieri indomiti usavano contro le legioni dell’esercito romano le tecniche della guerriglia, quella che si usa ancora oggi negli attacchi nelle foreste. Salivano, scendevano su e giù per i monti, praticando attacchi fulminei che lasciavano senza scampo. La conoscenza del territorio era l’elemento chiave di quella tecnica. Sapevano bene come e dove muoversi, dove attaccare e dove nascondersi. Un vantaggio non da poco in un’epoca in cui non esistevano mappe, né cartacee né tantomeno digitali. Ma l’esercito romano non tollerò a lungo un tale affronto e poco tempo dopo quelle popolazioni, fiere e indomite, furono sconfitte e relegate ai margini della storia, praticandogli la damnatio memoriae. Tale evento, se da un lato fu deleterio per le popolazioni dell’epoca, dall’altro permise che le stesse si evolvessero secondo una propria cultura e propri codici morali e legislativi di riferimento. C’è ancora nel DNA degli abitanti irpini un’informazione genetica che discende da quelle popolazioni antiche: del resto vivono in un habitat che in certi tratti sembra ancora quello selvaggio che percorsero le legioni degli invasori.

I personaggi protagonisti delle novelle si muovono in un’area, geografia dell’anima, che va da Ariano Irpino a Nusco, Montaguto, Frigento, Sturno, Grottaminarda, Laceno, Calitri, Rocca San Felice, toponimi che ai più dicono forse di qualche passeggiata, qualche visita di carattere storico-museale ma che invece al nostro autore dicono di magia, incanto, forza generatrice. La descrizione dei luoghi non è mai fredda e distaccata perché essi sono osservati attraverso il filtro della sensibilità e dell’amore dell’autore per la terra a cui sente di appartenere. Le vicende raccontate nelle novelle risultano in sostanza avere minore rilevanza rispetto al palcoscenico su cui si muovono i personaggi. Noi ci guardiamo, l’alba sta sorgendo appena e sopra gli Appennini, tra gli Alburni e i Picentini, si levano nuvole di fumo, come fuochi d’artificio, suffumigi di benessere animici. Noi ci abbracciamo, ci baciamo e cadiamo stremati su una panchina. Dormiamo. (pag. 58-59). Dall’Irpinia, come suggerisce il titolo, provengono le storie del ciabattino, del chianchiere, della janara, di un venditore di sogni che si materializzano in quei luoghi amati perché l’autore possa raccontarli, restituire loro la voce che il tempo cancella e restituire luce anche alla terra che li ha generati e sostenuti. Avrebbero potuto esistere, vivere, operare altrove? Forse no perché la forza del racconto è appunto nel dare ai personaggi, che spesso svolgono attività tipiche delle zone montane una capacità catarifrangente, sono cioè capaci di riflettere la luce che a loro proviene dagli spazi aperti, verdi dell’Irpinia e solo da quelli.

A soffrirne, nell’economia del racconto, è spesso la trama che a volte si perde nei meandri della fantasia o si interrompe perché sazia di ciò che è già stato detto. A tenere tutto legato è la cornice dell’Irpinia che fa perdonare anche alcuni improvvisi salti temporali o cambiamenti del punto di vista. Le suggestioni letterarie si avvertono: Virgilio, Boccaccio in alcune novelle che si avvicinano al licenzioso pur senza mai valicare i limiti. C’è per esempio un sacerdote che viene consapevolmente meno al voto di castità. Ma anche D’Annunzio con il suo panismo. Il tutto elaborato in uno stile ricco di suggestioni, immaginifico ed onirico che tuttavia non perde mai di vista i confini della realtà.

Giuseppe Tecce, attivo nel sociale, poeta e scrittore, equamente diviso tra Sannio (dove è nato a Benevento) ed Irpinia ci ha offerto un testo di notevole intensità emotiva in cui il dodecaedro che le dodici storie compongono è un solido platonico al cui interno pulsa la terra madre, l’Irpinia.

 

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