Il testo di Tacito, riporta il discorso che l’imperatore Claudio tenne al Senato nel 48 d.C., in cui discuteva con i senatori la possibile ammissione nel senato degli esponenti dell’élite della Gallia Transalpina tramite la concessione dello ‘ius honorum’. Claudio argomenta che questa pratica non è nuova, ma segue un modello storico di inclusione di vari popoli nella cittadinanza romana. Di questo discorso di Claudio esiste il testo inciso nel bronzo, trovato sotto terra a Lione e conservato in quel Museo; evidentemente i Galli riconoscenti lo vollero esporre probabilmente nella piazza della città nella quale Claudio, fratello di Germanico, era nato. E altrettanto evidente, se si confrontano i due testi, che Tacito conoscesse l’originale, ma lo abbia reso più dignitoso e coerente.
«Sotto il consolato di A. Vitellio e di L. Vipstano, si trattò dei vuoti da colmare in Senato. I notabili Galli della Gallia detta Chiomata (Gallia Transalpina, ndr), che già da tempo avevano acquisito i diritti di federati e la cittadinanza romana, chiesero di poter accedere alle cariche nell’Urbe. Sulla questione si accesero molti dibattiti e contrasti. (…) Se si ridestasse il ricordo di quelli che avevano perso la vita per mano di questi stessi Galli ai piedi del Campidoglio e della rocca Capitolina? Che usassero pure il nome di cittadini! ma non si estendano a tutti le decorazioni dei Padri, le dignità dei magistrati.
L’imperatore non fu dissuaso da questi argomenti e da altri simili; convocò il Senato e sùbito incominciò a contraddirli, con le parole seguenti: “I miei avi, il più remoto dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, fu accolto contemporaneamente nella cittadinanza romana e tra le famiglie dei patrizi, mi esortano ad applicare nel governo della repubblica i loro stessi provvedimenti, e di attuare qui tutto ciò che vi fu di eccellente. Non ignoro infatti che furono chiamati da Alba i Giulii, da Camerio i Coruncarii, i Porci da Tuscolo e introdotti in Senato, senza bisogno di indagare il passato, così dall’Etruria, dalla Lucania, da tutta l’Italia e infine l’Italia stessa fu estesa fino alle Alpi, sì che non soltanto singoli individui, ma regioni e popolazioni si fondessero nel nome nostro. Allora la pace all’interno era salda; e vincemmo contro i nemici, quando i Transpadani furono ammessi alla cittadinanza e, sotto l’apparenza del trasferimento di legioni nel mondo intero, in realtà l’ammissione dei migliori dei provinciali rinvigorì l’impero esausto. Ci rammarichiamo forse che siano entrati in Italia i Balbi dalla Spagna e altri uomini di prim’ordine dalla Gallia Narbonese? Vivono ancora i loro discendenti e non sono da meno di noi nell’amare questa patria. Da che cosa derivò tanto danno agli Ateniesi e ai Lacedemoni se non dall’escludere i vinti, alla stregua di stranieri? Il fondatore di Roma, Romolo, fu tanto saggio da trattare, nello stesso giorno, molti popoli prima da nemici, poi da cittadini. Su di noi hanno regnato forestieri; e insignire di magistrature i figli di liberti non è, come alcuni erroneamente ritengono, una novità, ma fu fatto spesso dal popolo antico. Contro i Senoni abbiamo combattuto; e i Volsci, e gli Equi non sono mai scesi in campo contro di noi? Siamo stati vinti dai Galli; ma anche agli Etruschi abbiamo consegnato ostaggi e siamo passati sotto il giogo dei Sanniti (episodio delle Forche Caudine, 321 a.C, ndr). Eppure, se consideri tutte le guerre, nessuna ebbe termine in tempo più breve che quella contro i Galli (Cesare conquistò le Gallie dal 59 al 50 a.C, ndr) e dopo vi fu una pace ininterrotta e leale. Ormai per i costumi, i mestieri, le parentele si sono fusi con noi; è meglio che portino il loro oro, le loro ricchezze da noi, piuttosto che se le godano da soli. Tutte le cose, Padri Coscritti, che oggi ci appaiono tanto antiche, furono nuove un giorno; le magistrature sono passate dai patrizi ai plebei, dopo i plebei ai Latini e dopo i Latini a tutte le altre popolazioni italiche.
Anche questo diventerà antico e ciò che noi oggi sosteniamo citando esempi, diventerà a sua volta un esempio”.»
Publio Cornelio Tacito, Annali, L.XI, 23-24 (Trad. Lidia Storoni Mazzolani).