Anche quest’anno il 31 ottobre si avvicina: le città si trasformano in un teatro di maschere, luci tremolanti e ombre che sembrano prendere vita. È il momento in cui il buio respira più vicino e i bambini, travestiti, bussano alle porte in cerca di dolci e sorprese. Halloween, per molti, è solo un gioco. Ma dietro la superficie di plastica e zucchero sopravvive un’antichissima domanda: cosa facciamo delle nostre paure?
Nelle sue radici celtiche, la notte di Samhain segnava la fine dell’estate e l’inizio del lungo inverno. Si accendevano fuochi, si lasciavano offerte, si evocavano gli antenati. Era il momento in cui il mondo dei vivi e quello dei morti si sfioravano, non per spaventarsi, ma per riconoscersi.
Oggi quella soglia si è trasformata in spettacolo, rivestita di una patina pop: vetrine arancioni, maschere industriali, streghe sorridenti e l’industria del travestimento che si scatena. Eppure, dietro la messinscena, Halloween conserva la sua antica funzione: trasformare la paura in racconto, renderla condivisibile, addomesticarla attraverso il rito del gioco.
Mascherarsi non è fuggire, ma rivelare. Ogni costume, dal vampiro nostalgico alla mummia metropolitana, racconta il nostro tempo meglio di molte cronache. Ogni epoca ha i suoi mostri. Quelli di Halloween parlano delle ansie contemporanee: la solitudine, la perdita d’identità, la smania di apparire. Halloween diventa così una lente sull’immaginario collettivo, un modo per trasformare l’angoscia in rappresentazione.
Ma Halloween non è solo rumore. In molte case, soprattutto nelle campagne anglosassoni, si accende ancora una candela alla finestra, si lascia una mela sul davanzale: piccoli gesti per chi non c’è più. È la parte sommessa e poetica della festa, quella che tiene insieme paura e memoria, come due facce della stessa luna.
Nella notte più buia dell’anno, ricordare diventa un modo per restare vivi, per dare un nome all’assenza, per dire che anche i fantasmi, a volte, hanno bisogno di essere ascoltati. Forse Halloween sopravvive perché ci ricorda ciò che la modernità preferisce dimenticare: che la luce non esiste senza la sua ombra, e che il buio, a guardarlo con attenzione, non è solo minaccia, ma possibilità.
Più che una festa frivola, è un’occasione per scrutare l’ignoto, confrontarsi con la fine e rinnovare, tra scherzo e simbolo, la nostra appartenenza al ciclo della vita e della morte. È la notte in cui la paura smette di essere un difetto di cui vergognarsi e diventa linguaggio, rito, racconto condiviso. Una notte che, tra un sorriso truccato e una candela che vacilla, ci insegna che l’oscurità non va cacciata, ma capita.
