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Addio a Giorgio Forattini, il potere visto con la matita

L’Italia non come la si vorrebbe, ma come la si vede nello specchio della satira

by Francesca Pica
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C’è stato un tempo in cui, al mattino, milioni di italiani aprivano il giornale non per leggere il fondo, ma per guardare la vignetta. Quel tratto inconfondibile, sottile e affilato, era la firma di Giorgio Forattini. Il vignettista che per oltre quarant’anni ha accompagnato, e spesso anticipato, il racconto della politica italiana, si è spento ieri a Milano, a 94 anni. Le sue immagini, più rapide e feroci di un editoriale, costituivano un linguaggio a sé: un modo per pensare in disegno, per dire l’indicibile con una risata amara.

Nato a Roma nel 1931, Forattini aveva iniziato la sua carriera come illustratore e grafico pubblicitario. Nel 1971 approda al Paese Sera, ma è con La Repubblica – fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari – che diventa una voce centrale del giornalismo italiano. Le sue vignette campeggiavano in prima pagina, ogni giorno, come un contrappunto visivo al dibattito politico. Erano radiografie del potere, ironiche ma chirurgiche, capaci di restituire la temperatura morale del Paese.

Una delle più celebri risale al 14 maggio 1974: pubblicata da Paese Sera all’indomani della vittoria del “no” al referendum sul divorzio, raffigurava una bottiglia di champagne con un tappo che volava via dalle sembianze di Amintore Fanfani, allora segretario della Democrazia Cristiana. Da quel giorno, le vignette di Forattini non passarono più inosservate: Feltrinelli ne raccolse presto una selezione nel volume Referendum Reverendum.

Con un solo colpo di matita, Forattini sapeva inchiodare politici e poteri. Nelle sue mani la caricatura non era mai un semplice esercizio di stile, ma satira grafica allo stato puro, un micro-editoriale disegnato. Sapeva condensare in un volto deformato un intero sistema politico: il naso lungo di Andreotti, l’aria da attore consumato di Craxi, la compostezza di Berlinguer, la bonaria spavalderia di Cossiga. Nessuno veniva risparmiato, nessuno era troppo potente per non essere ridicolizzato.

La sua forza stava nell’equilibrio perfetto tra riconoscibilità e invenzione. Bastava un tratto, un oggetto, un dettaglio: una giacca, un sorriso, una postura. Nei volti deformati dei potenti si rifletteva l’Italia stessa, con le sue paure, i suoi eccessi e la sua infinita capacità di sopravvivere a tutto, anche al ridicolo.

Non sono mancati scontri, censure, querele. La sua satira è sempre stata senza rete: tagliente, partigiana, a volte brutale. Celebre la vicenda di Massimo D’Alema, che chiese un risarcimento di tre miliardi di lire per una vignetta in cui il disegnatore lo raffigurava intento a “sbianchettare” la lista Mitrokhin. Un caso che fece storia e gli costò ingenti spese legali, ma non incrinò la sua ironia.

Forattini ha colpito tutti, ma ha anche diviso: per alcuni geniale e corrosivo, per altri eccessivo e provocatorio. Eppure, ha sempre difeso con fermezza la libertà di ridere del potere, considerandola il fondamento stesso della democrazia.

Oggi che la satira vive soprattutto sui social, ridotta spesso a meme effimeri e battute istantanee, il lavoro di Forattini appare come un monumento alla lentezza intelligente. Le sue vignette restano la memoria: una risata che dura, una deformazione che illumina.

Ha raccontato l’Italia non come la si vorrebbe, ma come la si vede nello specchio della satira: grottesca, vivace, irriducibilmente umana. E in quella risata, sempre un po’ amara, c’è tutto il ritratto di un Paese che da sempre riesce a prendersi sul serio solo quando qualcuno lo prende in giro.

 

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