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Alfabeto delle citazioni: Flaubert. Matrimonio

Emma Bovary, moglie insoddisfatta

by Piera De Prosperis
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Quale domanda pone la vicenda di Emma Bovary, moglie insoddisfatta, alla società del suo tempo? Il matrimonio con l’imposizione di rigide regole di comportamento ad una donna garantisce davvero l’ordine sociale precostituito o la repressione imposta non determina piuttosto le ricerca di un altrove?

Flaubert esplora con estrema perizia la relazione fra ordine e disordine fra règles e tournures, fra ciò che procede in maniera lineare e ciò che curva, che devia da quanto rigidamente tracciato.

Emma piega, si discosta, fa giravolte, desidera avere ciò che non ha, magari idealizzandolo, perché la società in cui vive mortifica le sue aspirazioni. Il bovarismo è, al tempo, una malattia soprattutto femminile. E’ forse questo desiderio di credere ancora e sempre ai propri sogni in un contesto seppur decisamente inappropriato che spinge anche oggi le donne a rimanere legate ad un compagno che non risponde più a quell’immagine che ci si era costituita nei primi tempi dell’innamoramento? A giustificare le sue azioni e magari a condividerne scelte anche discutibili? Emma che cerca, ormai delusa da Charles, di inseguire i suoi sogni fuori dal matrimonio, soccombe.

Oggi, invece, si lamenta la crisi dell’istituzione del matrimonio, rifiutato perché si teme di perdere la propria indipendenza o perché non si accettano vincoli rigidi. La società liquida è anche questo, e di Bovary ce ne sono molte di meno.

Eravamo in aula di studio, ed entrò il rettore, dietro gli venivano un nuovo ancora in panni borghesi e un bidello che trascinava un banco. Quelli che dormivano si svegliarono, ci tirammo su tutti, con l’aria di esser stati sorpresi nel fervore dell’attività. Il rettore fece segno che ci rimettessimo a sedere; poi si rivolse al prefetto: “Signor Roger,” gli disse a mezza voce, “vi affido questo allievo, entra in quinta. Se il suo profitto e la sua condotta saranno buoni, lo passeremo tra i grandi come vorrebbe la sua età.” Se ne restava nell’angolo, dietro la porta, lo si vedeva appena, il nuovo: un ragazzo di campagna, avrà avuto un quindici anni, era sicuramente più alto di tutti noi. Aveva i capelli tagliati netti a frangia sulla fronte come un chierico di paese, un’espressione mite e piuttosto impacciata. Sebbene non fosse poi largo di spalle, la giacca di panno verde con i bottoni neri doveva stringerlo abbastanza al giro delle maniche; attraverso l’apertura dei paramani si mettevano in mostra certi polsi rossi per l’abitudine di stare scoperti. Le sue gambe, avviluppate in calze turchine, venivan fuori da pantaloni giallastri molto tesi dalle bretelle. Ai piedi portava scarponi chiodati e mal lucidati. Cominciammo a ripetere le lezioni. Ascoltava, tutt’orecchi, come se fosse in chiesa, alla predica, non s’azzardava neppure a incrociare le cosce o ad appoggiarsi sul gomito. Alle due, quando suonò la campanella, il prefetto dovette dirglielo, di mettersi in fila con noi.

Una giovane donna in abito di lana turchina, guarnito di volanti, venne a ricevere Charles sulla soglia della casa, lo fece entrare in cucina ove fiammeggiava un gran fuoco…..Charles restò impressionato dal nitore di quelle unghie. Erano luccicanti, appuntite, più levigate degli avori di Dieppe, tagliate a mandorla. La mano, tuttavia, non era bella nel suo complesso: forse non abbastanza candida, piuttosto secca alle falangi, era anche troppo lunga e mancava di mollezza nei contorni. Di veramente bello, la signorina Emma aveva, invece, gli occhi: sebbene fossero grigi parevano neri a causa delle lunghe ciglia, il loro sguardo ti colpiva francamente, con candida arditezza. …..Dapprima parlarono dell’infortunato, poi del tempo che faceva, del gran freddo, dei lupi che s’aggiravano per i campi la notte. Lei non si trovava a proprio agio in campagna, adesso soprattutto che le si era riversata interamente sulle spalle la responsabilità di mandare avanti la fattoria. La sala non era riscaldata, e lei batteva un poco i denti, mangiando, scopriva così le labbra carnose che era solita mordicchiare nei momenti di silenzio. Il collo le usciva da un colletto bianco, rovesciato. I capelli, le cui due bande nere parevano fatte ciascuna d’un pezzo unico tanto erano lisce, erano divisi nel mezzo da una scriminatura sottile che s’incideva lievemente secondo la curva del cranio, scoprendo appena la punta degli orecchi, andavano a confondersi, dietro, in uno chignon abbondante. Sulle tempie aveva come un movimento d’onda, ed era la prima volta che il medico di campagna vedeva una pettinatura simile. Aveva le guance rosee. E come un uomo portava l’occhialino di tartaruga infilato tra due bottoni del corpetto. Quando Charles, dopo essere salito a salutare papà Rouault, tornò in quella sala, ormai pronto alla partenza, trovò la signorina Emma in piedi, la fronte contro i vetri della finestra: guardava il giardino ove i sostegni dei fagioli erano stati abbattuti dal vento. Lei si girò. “Cercate qualcosa?” gli chiese. “Il mio frustino, scusate,” disse lui. Prese a guardare sul letto, dietro le porte, sotto le sedie: il frustino era finito per terra, tra sacchi e parete. Appena lo vide la signorina Emma si chinò sui sacchi di grano. Charles, per cortesia, si spinse avanti e, mentre tendeva il braccio nello stesso movimento, sentì il proprio petto sfiorare la schiena della giovane donna. Lei si tirò su in fretta, tutta rossa, lo guardò da sopra una spalla, e intanto gli porgeva il nerbo di bue.

Eccoli Charles ed Emma pronti a vivere ignari la loro storia, specie Madame con valigie vuote piene di trucchi per tragedie immaginarie. (Guccini, Signora Bovary)

 

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