C’era da provvedere alla nomina di un alto dirigente di un importante ufficio pubblico a seguito della morte improvvisa del titolare. Tra i pretendenti alla successione due erano i più accreditati, il già vice del dirigente scomparso ed il più anziano tra gli aventi titolo, forte anche di un curriculum vitae et studiorum decisamente più ricco di quello del pretendente vice facente funzione. Quest’ultimo, profittando del suo ruolo di primo dirigente, subentrato pro-tempore al defunto, si scrive per se stesso il bando del concorso per la selezione del successore e lo pubblica. Ma non si ferma qui, nomina anche i membri della commissione che avrebbe valutato i concorrenti. Infine protocolla la sua candidatura al concorso e, guarda un po’, vince il concorso. Il rivale non ci sta, ricorre al Tar e denuncia penalmente il facente funzione per ‘abuso di ufficio’, art. 323 c.p. Dopo qualche mese, il Tar dà ragione al ricorrente ed annulla il concorso. Il tribunale penale condanna l’imputato per il reato di cui sopra. Non è una favoletta, è successo veramente pochi mesi orsono e solo per rispetto della privacy dei protagonisti della vicenda non ne facciamo qui i nomi.
Leggiamolo allora il testo del vigente art. 323 c.p.:
<<Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.
La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità>>.
In questi giorni, tra le riforme della giustizia di cui si sta ragionando in Parlamento, su iniziativa del guardasigilli Carlo Nordio, c’è la depenalizzazione del reato di cui sopra.
Diciamo subito che, per essere stati noi stessi pubblici amministratori, comprendiamo le ragioni di questa riflessione del legislatore. Del ricorso alla giustizia per il reato di abuso di ufficio si è ampiamente .. abusato in Italia. Al punto che la minaccia di finire imputati per esso ha finito per irretire l’efficienza della pubblica amministrazione. Ed è vero anche che la stragrande maggioranza dei dirigenti e dei politici finiti davanti alle corti di giustizia con questa imputazione è stata assolta. Solo nel 2021 sono state 4.745 le iscrizioni nel registro degli indagati per abuso di ufficio e solo 18 le condanne in primo grado!
Ma i procedimenti giudiziari hanno comunque rallentato quelli amministrativi, le vertenze sono costate fior di quattrini agli imputati e la semplice minaccia di essere denunciati ha comportato un clima generale di cautela e di riluttanza a ‘firmare’. Il problema dunque c’è ed è reale. Ma una cosa è gettare via l’acqua sporca, un’altra è di buttare insieme ad essa anche il bambino; una cosa è prendere coscienza del problema e correggere il codice penale per quanto necessario, altra è abolire del tutto il reato.
Ma tant’è, lo scorso 15 giugno, il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro Nordio, all’unanimità ha approvato un Ddl sulla Riforma della Giustizia, che contempla l’abolizione sic et simpliciter dell’art. 323 c.p. Il Ddl è stato poi approvato dalla Camera dei deputati ed ora è all’esame del Senato. Vedremo a quali conclusioni si arriverà. Nel frattempo, il voto della Camera ha determinato un ulteriore caso di tensione tra Italia e U.E., perché in contrasto con la direttiva europea sulla corruzione, che ribadisce la necessità della penalizzazione dell’abuso d’ufficio.
In attesa della conclusione dell’iter legislativo, nei meandri della dirigenza dello Stato sta intanto prendendo corpo una sorta di parentopoli. Parenti di politici in auge stanno curiosamente vincendo i concorsi ai quali partecipano, o stanno ricevendo incarichi dirigenziali intuitu personae. Vale la pena da subito di chiarire che non ci riferiamo qui agli incarichi politici assegnati ai propri parenti; un partito, ancorché concorra alla vita delle istituzioni, non è un’istituzione pubblica. Per essere espliciti, nulla da eccepire se la sorella del capo del governo viene nominata responsabile politico dell’organizzazione del suo partito ed anche se il marito di lei viene nominato ministro della Repubblica. Sono scelte politiche, punto.
Diverso è il caso della dirigenza dello Stato. In questo caso vigono norme severe a tutela della trasparenza delle procedure. Sono leggi a tutela della trasparenza, della terzietà della burocrazia e della sua imparzialità rispetto alla contesa politica.
Orbene, da qualche mese si leggono notizie di nomine di parenti di politici di governo nei gangli della burocrazia dello Stato. Ultima la nomina del prof. Rocco Bellantone alla guida dell’Istituto Superiore di Sanità, ruolo in cui è subentrato al prof. Silvio Brusaferro. Bellantone è parente di Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri. Così in Abruzzo Vittorio Catone, nipote dell’on. Giampiero Catone, FdI, è stato nominato due anni fa presidente della Società Saga, controllata dalla Regione Abruzzo, guidata da Marco Marsilio, stesso partito.
Forse non c’entra niente, ma il sospetto che vi sia una correlazione tra l’aspettativa della imminente cancellazione del reato di abuso di ufficio e il ripetersi di tali episodi è forte.