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Ancora un’utopia per ripartire

by Fabrizio Mangoni
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L’autore è stato professore associato di Urbanistica all’Università Federico II di Napoli.

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la città era la manifestazione più evidente del modello di sviluppo legato all’economia industriale. La città attirava grandi masse dalla campagna, prometteva a pochi un biglietto vincente nella lotteria della vita, diffondeva per molti ingiustizia e dolore, ma offriva anche sopravvivenza a molti disperati. Chi proponeva una società diversa, più egualitaria, trovava nel disegno di città immaginarie la più efficace dimostrazione di un programma politico più solidale. Falansteri, Familisteri, Città – giardino, erano utopie solo in parte irrealizzabili, ma comunque utili per una dimostrazione di una possibilità diversa. Oggi forse l’utopia torna di attualità. Credo che architetti e urbanisti siano chiamati ad un nuovo impegno ideale, dopo anni di una tecnica piegata ad interessi piccoli o resa superflua da interessi grandi. Le città sono diventate manifesto di simboli del potere economico; si sono così riempite di oggetti fantastici, di architetture a volte astruse, di forme belle, dietro cui aumentavano le differenze sociali e il disagio di molti, e l’ambiente riceveva danni irreparabili.

Quando mi chiedono come vedo, da urbanista, quello che succederà negli insediamenti umani nel dopo Covid, non so rispondere. Ho la sensazione di avere una grande cassetta di attrezzi, fatta di tanti strumenti, idee, bei pensieri, ma non ho una chiave inglese capace di avvitare l’acqua dell’incertezza. Eppure forse un pensiero bisogna averlo. Sia ben chiaro credo nelle competenze e nella scienza, ma penso che oggi i tecnici e gli scienziati sono chiamati a tirare un po’ fuori il naso dal loro specifico per confrontarsi con le novità che ci aspettano. E quindi provo a ragionare partendo da me, da me in questa quarantena e da come vedo il futuro del mio quotidiano. Provo a prendere dalla cassetta uno strumento di validità abbastanza universale. Quando un pianificatore pensa ad una strategia del futuro, volente o nolente, passa obbligatoriamente per questi quattro punti: Dove stiamo? Dove stiamo andando? Dove vogliamo andare? Come possiamo arrivarci?

Proviamo ad affrontare questi passi, partendo da noi.

Dove siamo?

In questi mesi di quarantena, abbiamo apprezzato alcune cose e scoperto molte imposture. Abbiamo apprezzato la lentezza, ma non abbiamo avuto il vuoto nelle nostre vite. Si è svuotata la frenesia, l’idea che la prima domanda che ricevevi o che ponevi a qualcuno era: “Che stai facendo? Che progetti hai?”. Le nuove risposte sono: ho una mattinata di lavoro a distanza, non prendo un treno per andare a fare una conferenza, ma mi collego da casa con un panino davanti, faccio lezione a distanza, mi incontro via Skype con amici che non vedevo mai prima, non sono costretto a cenare con chi non mi interessa, cucino qualcosa di buono, o mi faccio venire un manicaretto a casa, vedo dei bei film, ho la forza di spegnere un programma politico angosciante e prendere in mano un libro che mi aspettava da tempo sullo scaffale. Certo è un tempo sospeso che non può durare, ma quando usciremo avremo due possibilità: ricominciare come prima o fare tesoro di quello che abbiamo imparato. Non ignoro che il 40% della popolazione italiana, non sta così. So di rientrare in quel 60% dei garantiti da uno stipendio o da una pensione (ma durerà, con lo Stato che si indebita tanto per affrontare l’emergenza?). Abbiamo sentito la necessità della solidarietà. Non un granché, ma chi, prima, avrebbe pensato di fare una spesa in più da lasciare su un banchetto per chi quella spesa non poteva permettersela.

Che indicazioni per l’urbanistica? La quarantena ha reso palesi le diseguaglianze abitative. Chi ha case, anche non principesche, ma con balcone, terrazzino, o spazi collettivi da usare, se l’è cavata meglio di chi, e sono tanti, vive nei tuguri, nei bassi, in case senza luce. Da decenni, non si fa in Italia una politica per la casa. Non si tratta di riprendere con i ghetti. Qui la cassetta degli attrezzi offre lo strumento della mixitè sociale (classi sociali diverse negli stessi luoghi), funzionale (non solo case e servizi locali, ma anche servizi superiori), morfologica (non falansteri ma spazi articolati e variabili che offrono occasione di vita associata). Poi recupero, abbiamo paesi interi vuoti, ma anche (penso a Taranto, ad esempio) interi centri storici vuoti. Poi anche le case, molte case hanno dimostrato i loro limiti. La mancanza di spazi comuni, separati da quelli individuali, l’inadeguata capacità di connessione elettronica, per lavorare o studiare, la difficoltà di aiutare chi è solo e in difficoltà, addirittura di accorgersi della loro esistenza.

Dove Stiamo andando?

Qui l’incertezza la fa da padrona. Quanto durerà la paura? Quando ci saranno i vaccini? E poi sarà questa l’ultima pandemia o, se non cambiamo qualcosa, ce ne piomberanno addosso altre? A seconda delle risposte a queste domande cambia la strategia e l’analisi delle tendenze. Per ora mi sembra che stiamo aiutando, e non si può fare diversamente, persone e aziende a sopravvivere per un po’ alla crisi economica indotta dal Lockdown. Ma per quanto tempo e con quale prospettiva? Se immagino, ad esempio, che superata questa stagione turistica negativa, la prossima sarà più o meno uguale alle precedenti, è utile favorire il “guado”. Ma se la paura continuerà come sarà l’albergo dove vorremmo andare in sicurezza? Sarà probabilmente molto diverso da quelli che abbiamo. In questo caso, aiutando le imprese a mantenere vecchi modelli, forse le stiamo solo aiutando ad affondare nel “guado”. Le industrie si stanno adeguando alla sicurezza, hanno sistemi di distanziamento dei lavoratori, organizzano turni, ma nella crisi globale possiamo escludere che non ci saranno spazi di attività innovative, nuove concorrenze e diverse localizzazioni? Ilaria Capua ha individuato, tra le cause della pandemia, il fatto che il nostro ritmo biologico non riesce ad andare dietro alla velocità di azione e connessione di quello tecnologico. Dobbiamo rallentare, viaggiare di meno, ritrovare un rapporto con la natura. Se continuiamo ad avere grandi allevamenti animali, a cementare la campagna, a concentrare l’inquinamento e le persone, a invadere il terreno della natura selvatica, saremo presto di nuovo nei guai.

Sono molto d’accordo con una riflessione di Claudio Velardi sul sito “Il Giorno Dopo”, che non vede via di mezzo tra i “ripartenti” che forti dell’esperienza vissuta si metteranno in discussione con le loro abitudini e i “rassegnati-reclamanti”, incapaci di rinunciare al vecchio mondo, ma sempre più dipendenti da una spesa pubblica destinata a rivelarsi insufficiente. Voglio rappresentarvi plasticamente questo con un’immagine. In questi giorni su una spiaggia di Posillipo, abbiamo visto gli effetti dell’aver concesso una pausa alla natura. Non solo gabbiani e colombi la facevano da padrona, ma anche i cormorani pescavano in acque mai viste così limpide. Appena finito il Lockdown, un ragazzo su un quad ha sgommato per tutto il pomeriggio sulla sabbia. Che voleva dirci? Non intendo rinunciare a niente del prima e pretendo di essere aiutato a continuare a farlo.

Dove vogliamo andare?

Parto ancora una volta da me. Preferirò il piccolo centro alla città che va disinnescata nei fenomeni di concentrazione e ridimensionata nel suo ruolo economico. Preferirò utilizzare un’agricoltura di prossimità, che salda la qualità di suoli (meno chimica) alla bontà dei prodotti. Se questo significa mangiare meno carne, va bene così. Si potrebbe innescare un grande riequilibrio territoriale. Tante nostre valli possono accogliere senza danni per la sostenibilità molte migliaia di nuovi abitanti, che potranno raggiungere luoghi di lavoro in un‘ora, godendo però di una vita tranquilla e salutare. Si possono fare città di dieci paesini con i servizi di una media città? È un’utopia di cui si parla da decenni, ma non abbiamo bisogno di un po’ di utopia per iniziare a camminare in qualche direzione? Lo slogan cui riferirsi è fare MOLTO con POCO, a differenza di come si è andati avanti in questi anni. Ogni azione, ogni investimento, andrebbe misurata con questo criterio.

Come arrivarci?

Nella pianificazione strategica questo punto comporta l’attivazione di tavoli, il coinvolgimento di attori, è il momento degli accordi con chi ci sta. Qui veramente non so rispondere. Quello di cui abbiamo bisogno è un programma di lungo periodo da portare avanti passo dopo passo. Purtroppo nel nostro paese abbiamo una decisone politica tempestata di elezioni periodiche e non abbiamo un’amministrazione pubblica che può garantire continuità d’azione. Forse crescerà una domanda di nuove condizioni di vita da parte di tanti che potrà stimolare e orientare investimenti produttivi e finanziari per assecondarla. Si tratta di navigare un po’ a vista verso una direzione, pronti a deviare e ad evitare effetti indesiderati. Nella mia esperienza di pianificazione strategica ho sempre tenuto presente il rischio del fallimento. C’è un libro, “Collasso” di Jared Diamond, che elenca tanti effetti indesiderati delle strategie. Il libro si apre con una domanda emblematica: “Cosa avrà pensato, nell’isola di Pasqua, quell’uomo mentre tagliava l’ultimo albero dell’isola per favorire il trasporto dell’ultima statua di pietra che decorava quel paesaggio?”. Stiamo attenti a non arrivare a quel punto, ricominciando tutto come se niente ci fosse stato.